Good Boy è un haunted house dal punto di vista di Indy, un Nova Scotia Duck Tolling Retriever che sorveglia il padrone Todd mentre la malattia e un’infestazione di memorie corrodono la vecchia casa del nonno. L’idea di Ben Leonberg - semplice e radicale insieme: abbassare la cinepresa all’altezza delle ginocchia e affidare lo sguardo al cane di casa - potrebbe sembrare un espediente da “pitch”, invece diventa metodo e, soprattutto, etica dello sguardo: la fedeltà dell’animale, l’ascolto, l’olfatto, l’attenzione agli interstizi riplasmano grammatica e affettività del racconto, spostandolo dal regime del “vedere” al regime del “sentire”.

Il dispositivo produce due effetti immediati. Il primo è percettivo: luci diegetiche, corridoi, cantine, campi ristretti e tracking a quota battiscopa trasformano l’architettura domestica in una geografia dell’incertezza. Il secondo è narrativo: i volti umani compaiono tagliati, decentrati, talora appena silhouette; è la presenza di Indy – close-up del muso, sopracciglia tese, fiato che si fa corto – a montare il film, a guidare il tempo delle attese, a suggerire ciò che non vediamo ma che lui avverte prima di noi. Ne scaturisce un horror che predilige il subjective sound (scricchiolii, lamenti, fruscii in cortile) agli spaventi di grana grossa e che usa la ripetizione non come difetto ma come esercizio di esposizione: tornare “là dove fa paura” è il lavoro quotidiano di un cane guardiano.

La struttura è sorprendentemente umile e coerente. Leonberg intreccia tre strati: i gesti di cura tra Indy e Todd (la devozione che resiste), un passato che affiora in videocassette di tassidermia del nonno (entrambe macchine di conservazione e di morte), e un presente intorbidato da presenze – un cacciatore in mimetica che si confonde col bosco, un ghoul di fango, ombre alla maniera del Babadook. Il montaggio ibrida media e tempi, come se dalla casa filtrassero immagini fossilizzate che chiedono di essere riattraversate. È qui che Good Boy si avvicina a un’idea baziniana del cinema: contro la caducità, l’immagine “mummifica” il vivente – e, per contro, lo spettralizza. Nella casa-archivio, il cane è insieme custode e medium, psicopompo laico che fiuta un passaggio di soglie.

Il film che apre Alice nella Città 2025 s’iscrive nella stagione recente delle inversioni di punto di vista nel genere – Presence di Soderbergh, con la camera-fantasma - ma la mossa di Leonberg si distingue perché rifiuta onniscienze e ironie: il suo è un POV non-umano, vulnerabile, etologicamente credibile. Non c’è voce fuori campo, non c’è “traduzione” umana del pensiero dell’animale; c’è, piuttosto, una fiducia nella capacità dello spettatore di proiettare emozioni su un corpo reale, non animato digitalmente, e di accettare la parzialità come verità. In questo senso Good Boy dialoga tanto con la bestia mostruosa dell’horror classico (il cane come allarme in The Omen, il contagio in The Thing, l’aggressività in Cujo) quanto con l’eccezione nera di Baxter (il cane-narratore misantropo). Leonberg ribalta entrambe le linee: l’animale non è vettore di minaccia né coscienza cinica; è un soggetto di cura, un’unità morale che resiste alla dissoluzione. Perfino il tropo più odiato dagli amanti del genere – “muore il cane” – viene respinto, e non per accondiscendenza, ma perché il film sceglie di interrogare cosa significhi sopravvivere insieme.

Da qui si apre la soglia del sacro. Non nel senso di icone o riti espliciti, ma come numinoso opaco che abita lo spazio domestico: la presenza che eccede ogni causalità, che mette alla prova e chiama a una postura. La fedeltà di Indy ha una natura quasi liturgica: una ripetizione devota di atti di protezione che, nella logica dell’horror, equivalgono a un piccolo sacrificio di sé. E, con Bataille, si direbbe che l’animale – più vicino al continuum della vita che alla separazione culturale mortifera – funge da controcanto all’ossessione umana per la tassidermia, cioè per il trattenere ciò che sfugge. Il cane custodisce l’immanenza, l’uomo imbalsama l’assenza.

Sul versante della teoria dello sguardo, Good Boy esercita una dislocazione salutare. John Berger ricordava come, nella modernità, più gli animali scompaiono dal mondo, più proliferano come immagini (e Lippit avrebbe scritto che il cinema è il luogo in cui l’animale “riappare”). Qui l’immagine-animale non è ornamento, è dispositivo: il cinema restituisce all’animale una centralità che la cultura gli ha sottratto, e nel farlo riduce l’umano a parziale, marginale, perfino inaffidabile. La scelta di nascondere i volti, di insistere su gambe, mani, tronchi, non è un trucco: è un invito a riapprendere la visione a partire da chi abita il nostro stesso spazio con sensi diversi.

Certo, la forma ha il suo prezzo. La ripetizione di perlustrazioni notturne e sound cues può generare un senso di esilità drammaturgica, seppure la durata asciutta (poco più di 70 minuti) indica che Leonberg conosce la misura (e la fragilità) del proprio gesto. Là dove il film si allunga oltremodo, resta la qualità del tatto sonoro, l’eleganza minima delle luci, l’intelligenza con cui il regista evita di spiegare l’innominabile. L’ultimo tratto, più melanconico che catartico, conferma che l’obiettivo non è “sconfiggere il mostro”, ma onorare una relazione: la paura più grande – per un cane come per noi – non è l’apparizione di uno spettro, è la perdita dell’altro.

È proprio in questo slittamento che Good Boy diventa interessante anche oltre il perimetro del genere. L’horror come laboratorio dell’empatia: non più solo maschere, shock, allegorie sociali, ma un allenamento a percepire il mondo da un altrove sensoriale. Un cinema a bassa altezza, che sa che l’immagine può ferire ma anche carezzare; che la casa è l’archivio dei nostri morti e il luogo in cui continuiamo a vegliarci a vicenda. Di film così, fatti con poco e con idee chiare, il panorama contemporaneo ha bisogno: ricordano che rinnovare il genere non è cambiare i mostri ma dove mettiamo gli occhi. E che, nell’orrore, ignorare le preoccupazioni di un cane è da sciocchi: spesso è lui a vedere – o a sentire – per primo ciò che ci riguarda tutti.