A chi le ricorda di avere la fama di dura, quando non addirittura di inaffidabile, Lynne Ramsay risponde senza troppi giri di parole: «Ho la reputazione di essere difficile: è una stronzata».
Detto con quell’accento scozzese tagliente, sigaretta arrotolata tra le dita, tono constatativo.

Quella fama, nella narrativa ufficiale, nasce nel 2013, quando Ramsay abbandona Jane Got a Gun, western con Natalie Portman, il primo giorno di riprese: non si presenta sul set. Spifferi dal dietro le quinte raccontano di una lunga guerra fredda con il produttore Scott Steindorff su ritardi, controllo del final cut, riscritture di sceneggiatura.
La produzione la porta in tribunale accusandola di aver violato il contratto, di comportamento “abusivo” e perfino di essersi presentata al lavoro sotto l’effetto dell’alcol; Ramsay respinge tutto, la causa si chiude fuori dai riflettori un anno dopo, ma il danno d’immagine è fatto.
Da allora, per i detrattori, è “la regista che scappa dai set”.

Certo, Lynne non fa molto per mostrarsi più docile. Nelle interviste appare con berretto di lana, jeans, stivali pesanti, un’aria da studentessa d’arte che ha marinato la scuola.
Vecchio sangue scozzese, convinzioni fondo e tanti saluti alla diplomazia.

Glasgow, le origini

Nasce a Glasgow nel 1969, in una famiglia working class: la madre fa le pulizie, il padre lavora al porto.
La loro ricchezza, racconterà dopo, sono i film che le mettono davanti fin da bambina: Bette Davis, Hitchcock, Roeg, Michael Curtiz, quella meraviglia de Il mago di Oz in televisione.
Prima di pensarsi regista, dipinge e studia fotografia al Napier College di Edimburgo. Poi cinematografia e regia alla National Film and Television School.
È lì che realizza una trilogia di corti – Small Deaths, Kill the Day, Gasman – che parlano già di bambini, famiglie disfunzionali, morte, memoria: Small Deaths e Gasman vincono il Premio della Giuria per il miglior cortometraggio a Cannes nel 1996 e 1998, mentre Kill the Day si aggiudica lo stesso riconoscimento a Clermont-Ferrand.

William Eadie in Ratcatcher (1999), @Webphoto
William Eadie in Ratcatcher (1999), @Webphoto

William Eadie in Ratcatcher (1999), @Webphoto

Il lungometraggio d’esordio, Ratcatcher – Acchiappatopi (1999), proviene da questo stesso background. Siamo nella Glasgow degli anni Settanta, durante lo sciopero dei netturbini: sacchi di rifiuti accatastati, topi, canali sporchi. James, il protagonista, è un ragazzino che porta addosso la colpa per la morte accidentale di un amico caduto nel canale. Ramsay filma tutto con una delicatezza brutalmente poetica: primi piani sporchi, improvvise aperture di luce (il campo di grano dove James sogna una campagna impossibile), realismo che sconfina nell’onirico.
Premiato ai BAFTA come miglior esordio, Ratcatcher – Acchiappatopi la impone subito come nuova voce del cinema britannico.

Samantha Morton in Morvern Callar (2002), @Webphoto, supplied by Capital Pictures
Samantha Morton in Morvern Callar (2002), @Webphoto, supplied by Capital Pictures
MORVERN CALLAR FILM, 2002 Lanna (Kathleen McDermott) leans out of the taxi as Morvern Callar (Samantha Morton) contemplates where they are headed. Ref: FB Supplied by Capital Pictures *Film Still - Editorial Use Only* Tel: +44 (0)20 7253 1122 www.capitalpictures.com sales@capitalpictures.com f/sd016 (Supplied by Capital Pictures)

Con Morvern Callar (2002), tratto da Alan Warner, Ramsay resta in Scozia ma sposta la prospettiva: una giovane donna trova il fidanzato suicida in cucina, copia il suo romanzo su un floppy, cancella il suo nome e parte. Niente voice over, poche spiegazioni: Morvern balla, viaggia in Spagna, ascolta musica in cuffia mentre il lutto resta sottopelle. Il film debutta alla Quinzaine di Cannes, dove conquista il premio C.I.C.A.E. e l’Award of the Youth, apre poi l’Edinburgh Film Festival e gira i principali festival internazionali (San Sebastián, Telluride, Toronto), confermando la regista come autrice da festival e affinando il suo metodo: dialoghi minimi, trama ridotta all’osso, primato a suoni, volti, corpi.

…E ora parliamo di Kevin

Il salto di scala arriva con …e ora parliamo di Kevin (2011). Eva (Tilda Swinton) è la madre di un adolescente che ha compiuto una strage a scuola; il film si muove a zig zag tra tempi diversi, flash di rosso, frammenti di memoria, ostilità diffusa. È un’operazione ad alto rischio: prendere un romanzo epistolare come We Need to Talk About Kevin di Lionel Shriver, fatto di lettere e monologhi interni, e trasformarlo in cinema puro. Per la sequenza d’apertura, Ramsay decide di andare davvero nel cuore della Tomatina di Buñol: migliaia di persone stipate nelle vie, pomodori che volano come proiettili, un’orgia rossa e appiccicosa. Nel pieno del caos, racconta, a un certo punto si ritrova schiacciata contro una porta, spruzzata di succo di pomodoro come una parodia della Carrie kinghiana, con la macchina da presa che traballa e rischia di cedere: niente figuranti, controlli, panico vero in mezzo a una folla ebbra di tomatos. È un frammento perfetto di regia ramsayana: buttarsi nel vortice, mettere in gioco l’incolumità propria e dell’attrezzatura, pur di strappare un’immagine che non sappia di “ricostruito”.

Tilda Swinton... e ora parliamo di Kevin (2011), @Webphoto
Tilda Swinton... e ora parliamo di Kevin (2011), @Webphoto

Tilda Swinton... e ora parliamo di Kevin (2011), @Webphoto

Dentro …e ora parliamo di Kevin si ritrova quasi tutto il suo lessico: la maternità come legame ambiguo, attraversato da un senso di estraneità che non si pacifica mai; il trauma che non viene mostrato “in diretta”, ma sempre dopo, per scaglie di memoria che riaffiorano a caso, come se la mente di Eva montasse e rimontasse da sola il proprio incubo. Anche il lavoro sul colore diventa sintomo: il rosso che invade lo schermo – sangue, pomodoro, vernice, luci al neon – non è solo una trovata visiva, è la manifestazione fisica di qualcosa che non si riesce a nominare. E poi c’è l’ellissi, forse l’ingrediente più caratteristico: Ramsay taglia, salta, spezza, ci lascia regolarmente un passo indietro rispetto a ciò che è “davvero” successo tra una scena e l’altra. È in questo iato, in queste zone d’ombra narrative, che il film costruisce il suo disagio e che la sua poetica trova la forma più compiuta.

Il risultato è un melodramma psicologico che scivola continuamente nell’horror morale, un film che funziona insieme come “studio del personaggio” e come disturbante esperienza sensoriale. Non a caso è quello che spalanca definitivamente a Ramsay le porte del circuito arthouse internazionale: concorso a Cannes, distribuzione globale, critiche anglosassoni che oscillano tra entusiasmo e disagio.

Tutte le ossessioni: bambini, lutti, corpi

Da Ratcatcher – Acchiappatopi ad A Beautiful Day – You Were Never Really Here (2017), passando per Morvern Callar e …e ora parliamo di Kevin, la traiettoria di Ramsay, a posteriori, si rivela sorprendentemente compatta. Cambiano i contesti – la Glasgow dei cassonetti straripanti, la provincia operaia, il sobborgo americano, il noir urbano – ma le figure che abitano i suoi film sono sempre varianti della stessa costellazione umana.

Tilda Swinton e Jasper Newell in ... e ora parliamo di Kevin (2011), @Webphoto
Tilda Swinton e Jasper Newell in ... e ora parliamo di Kevin (2011), @Webphoto

Tilda Swinton e  Jasper Newell in ... e ora parliamo di Kevin (2011), @Webphoto

Ci sono i bambini e gli adolescenti schiacciati dalla colpa, come James nel canale o Kevin con la sua opaca, irriducibile ostilità. Ci sono le madri in guerra con la propria immagine, incapaci di riconoscersi nel ruolo che il mondo assegna loro, come Eva che non riesce a “fare la madre” secondo copione. E ci sono gli adulti traumatizzati, alle prese con un “dopo” che non finisce mai, come Joe in A Beautiful Day – You Were Never Really Here, che vive in uno stato di perenne riemersione del passato.

È come se il cinema di Ramsay tornasse sempre lì: a personaggi che non riescono più a sincronizzarsi con il proprio tempo psicologico, inchiodati a una colpa o a un dolore che il racconto non riesce del tutto a metabolizzare.

In questo senso A Beautiful Day – You Were Never Really Here è una naturale prosecuzione del discorso. Tutto quello che nei film precedenti era affidato a bambini e madri qui passa nel corpo massiccio di Joaquin Phoenix, ex soldato e sicario che libera ragazzine dal traffico sessuale a colpi di martello. Il film, premiato a Cannes per sceneggiatura e interpretazione, è un noir ridotto all’osso: poche parole, azioni spezzate, flash di memoria, buchi neri di montaggio. Più che raccontare una storia di genere in senso stretto, Ramsay sembra volerci far abitare per un’ora e mezza la testa di un uomo pieno di traumi, mostrando come funziona – o si inceppa – una mente che non esce mai davvero dalla guerra.

Joaquin Phoenix in A Beautiful Day – You Were Never Really Here (2017) - @Webphoto
Joaquin Phoenix in A Beautiful Day – You Were Never Really Here (2017) - @Webphoto

Joaquin Phoenix in A Beautiful Day – You Were Never Really Here (2017) - @Webphoto

Ed è anche a questo punto del percorso che l’etichetta di “regista difficile” si intreccia con quella, ben più interessante, di artista radicale. Ramsay non è semplicemente una cineasta che dirige attori e coordina reparti: viene dalle arti visive, è passata per la fotografia e la pittura, spesso impugna lei stessa la macchina da presa, interviene in modo maniacale su suono e montaggio, e quando sente il bisogno di uscire dal formato lungometraggio si ritaglia corti quasi installativi come Swimmer o Brigitte.

Il suo cinema nasce da qui: è fisico prima che narrativo. Prima ancora delle storie, a colpirci è la tattilità delle superfici, le focali corte che schiacciano lo spazio, i dettagli di pelle, capelli, oggetti domestici, il lavoro sul sonoro che fa letteralmente scricchiolare la realtà. Ramsay non avverte l’esigenza di spiegare, preferisce mettere lo spettatore in uno stato di percezione alterata, costringerlo a sentire il mondo come lo sentono i suoi personaggi, con tutti i loro vuoti, le loro ossessioni, le loro crepe.

Die My Love spacca

Die My Love (2025) è, in molti sensi, il culmine di questo percorso. L’origine è letteraria, il passaggio di mani curioso: il romanzo di Ariana Harwicz atterra sul book club privato di Martin Scorsese, finisce sulla scrivania di Jennifer Lawrence, che lo porta nella sua casa di produzione e lo propone a Ramsay.
Ne nasce un film girato in 35mm, in 4:3, che la stessa autrice definisce un “portrait movie”: un ritratto concentrato sulla figura di Grace, giovane madre trasferita dal caos di New York alla provincia rurale del Montana, travolta da depressione e psicosi post-partum.

La lavorazione si porta dietro altri aneddoti: Lawrence è al quinto mese di gravidanza durante le riprese, Ramsay la spinge a una performance fisica e emotiva estrema, ma costruendo – a detta di entrambe – un patto di fiducia quasi simbiotico.
La fotografia di Seamus McGarvey schiaccia il corpo dell’attrice dentro un quadro stretto, quasi quadrato; la casa diventa una gabbia verticale, i campi lunghi sono rari, il paesaggio sembra un’estensione del suo stato mentale.

Jennifer Lawrence in Die, My Love (2025), @Webphoto (Die My Love LLC)
Jennifer Lawrence in Die, My Love (2025), @Webphoto (Die My Love LLC)

Jennifer Lawrence in Die, My Love (2025), @Webphoto (Die My Love LLC)

(Kimberly French)

Al box office, Die My Love si aggira per ora intorno ai 7,5 milioni di dollari worldwide, con circa due terzi dell’incasso concentrati tra Stati Uniti e Canada. Non sono cifre da fenomeno globale, ma nemmeno trascurabili per un’autrice così radicale.

Più ancora dei numeri, però, colpisce la spaccatura della critica. Le medie dei giudizi si assestano grosso modo sulla sufficienza alta - gli aggregatori restituiscono un 74% su Rotten Tomatoes e 72 su Metacritic - ma il film divide. Da un lato, firme come Peter Bradshaw sul Guardian parlano di «studio intensamente sensuale di una donna in pieno crollo nervoso», lodando una Lawrence «migliore che mai» in un ritratto di maternità bruciante; Stephanie Zacharek su Time la definisce «quel tipo di interpretazione per cui si va al cinema», capace di connettere in modo quasi spaventoso con la sofferenza umana; Dave Calhoun su Time Out insiste sul film come oggetto «profondamente crudo e onesto», attraversato da uno spirito musicale, nero e insieme pieno di cuore che ti tira fuori dalla disperazione.

Dall’altro lato, Owen Gleiberman su Variety liquida Die My Love come un «showy mess», un psicodramma coniugale vistoso in superficie ma “sovradeterminato” nelle sue tesi sulla maternità, mentre Sonia Rao sul Washington Post riconosce la bravura di Lawrence ma definisce il modo in cui il film tratta la depressione post-parto «sconcertante, a tratti persino sfruttatore». Richard Brody sul New Yorker parla di un’opera che finisce per sensazionalizzare i pericoli del post-partum, sacrificandoli a una visione più generale delle frustrazioni femminili nel matrimonio, e rimprovera al film una certa “vuotezza di osservazione”.

In altre parole, su Die My Love convergono gli stessi interrogativi che accompagnano Ramsay da anni: quanto può spingersi la forma, quando si lavora con temi così delicati – infanzia, lutto, maternità, malattia mentale – senza scivolare nell’estetizzazione? E fino a che punto la sua coerenza stilistica non rischia di diventare un marchio di fabbrica?

“I make films my way”

Se queste obiezioni la turbano, Lynne Ramsay non lo dà a vedere: «I make films my way», faccio i film a modo mio, ha risposto glaciale al Guardian. A prima vista può suonare come pura presunzione; in realtà è il distillato di un’intera biografia. Quella della figlia della working class scozzese che andava al cinema per riprendere fiato. Quella dell’artista che ha imparato il mestiere usando la macchina da presa come si usa un pennello. «Quando vado al cinema voglio avere un’esperienza cinematografica. Non qualcosa che potresti vedere in televisione». Fine della questione.

Le si possono tirare addosso pomodori veri, come a Buñol, o metaforici, come nelle polemiche su Jane Got a Gun e sull’ultimo film. Lei controllerà solo che la macchina da presa sia ancora accesa, guarderà di nuovo nel mirino e, se l’inquadratura le sembra giusta, si limiterà a pensare che tutto il resto è, semplicemente, un’emerita stronzata.