Il raggiungimento della bellezza e della perfezione estetica, l’ossequio ai canoni stabiliti e costruiti dalla società maschile sono diventati tema di riflessione per i racconti dell’orrore, a partire forse dalla serie tv Nip/Tuck che nel 2003 mostrava cosa significava in termini di violenza sui corpi la chirurgia estetica. Ma a ben guardare i precedenti sono più lontani e più atavici, sono le fiabe che ci hanno accompagnato lungo l’infanzia, edulcorate spesso del loro potenziale orrifico.

The Ugly Stepsister - Lea Myren - Photo Lukasz Bak-kopi
The Ugly Stepsister - Lea Myren - Photo Lukasz Bak-kopi

The Ugly Stepsister - Lea Myren - Photo Lukasz Bak-kopi

A questo potenziale si rifà Emilie Blichfeldt, regista norvegese che esordisce nel lungometraggio con The Ugly Stepsister, presentato al Trieste Science+Fiction Festival e subito nelle sale cinematografiche: il film è il racconto di Cenerentola visto però dagli occhi della sorellastra, quella che nelle versioni che conosciamo è brutta e cattiva, mentre qui è solo brutta, almeno stando a ciò che tutti le dicono, a partire dalla madre che brama che la figlia si sposi col principe per risollevare le disastrate finanze familiari. E quel matrimonio lo brama così tanto da imporre alla figlia una serie di tremende torture pur di renderla bella e desiderabile.

The Ugly Stepsister - Photo Lukasz Bak-kopi
The Ugly Stepsister - Photo Lukasz Bak-kopi

The Ugly Stepsister - Photo Lukasz Bak-kopi

Blichfeldt, che di The Ugly Stepsister è anche sceneggiatrice, si rifà alla versione del 1812 dei fratelli Grimm, la più cupa e violenta, e dà alla sola Elvira (interpretata da Lea Myren) il ruolo principale, rendendo la seconda sorella troppo piccola per il ballo, ma abbastanza per essere influenzata dalla madre, e a Cenerentola (Thea Sofie Loch Næss) quello della rivale, dell’antagonista. In questo modo, la fiaba diventa un veicolo per dare concretezza alla parabola sulla bellezza, in scia a racconti contemporanei come The Substance.

Qui il centro non è in farmaci o composti chimici che donano bellezza, ma negli sforzi sovrumani che le donne accettano o si impongono per compiacere lo sguardo maschile: Rebekka (Ane Dahl Torp) impone alla figlia di rifarsi il naso a suon di scalpello, di cucirsi ciglia più lunghe, di mangiare vermi solitari per dimagrire al fine di apparire un quarto di bue migliore in quella fiera campionaria che un tempo si chiamava ballo delle debuttanti. Quando si arriva alla scarpetta, la locandina è piuttosto chiara in merito a ciò che accade.

The Ugly Stepsister - Isac Calmroth and Lea Myren - Photo Lukasz Bak-kopi
The Ugly Stepsister - Isac Calmroth and Lea Myren - Photo Lukasz Bak-kopi

The Ugly Stepsister - Isac Calmroth and Lea Myren - Photo Lukasz Bak-kopi

Blichfeldt ha il concetto chiaro, tanto da reiterarlo in modo non troppo inventivo lungo il film, e si adagia su una confezione piuttosto à la page, tra immagini flou, musica fuori contesto, estetismi che guardano all’erotismo di Borowczyk; nondimeno, sa giocare con l’ironia del suo sguardo, la violenza delle pratiche che ancora oggi sono le stesse, anche se più tecnologizzate, e dà spessore a Elvira, alla sua parabola di gloria e abisso. Soprattutto, sembra conoscere bene il detto “Se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire” e sa dargli il giusto peso, riesce a renderlo sinistro manifesto della nostra società delle immagini e della performance.