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Yes di Nadav Lapid
Non è un film. Una detonazione etica, corporea, retinica. Yes di Nadav Lapid, presentato alla Quinzaine 2025, è l’opposto del piacere: un cinema che prende a morsi, che sbava, che urla mentre soffoca. Un cinema che non vuole spiegare, ma espellere. Vomitare l’insopportabile.
Lapid gira sotto shock. Il trauma è doppio: il 7 ottobre e il fatto, ancora più lacerante, di essere israeliani oggi. Di essere, insieme, vittime e carnefici. Di vivere in un paese che si crede Stato e si comporta da spettro. Il regista lo sa: non puoi raccontare l’orrore con i codici del cinema classico. Non c’è inquadratura che basti. Non c’è drammaturgia che regga. E allora, come un epilettico in preda al momento, Lapid frantuma tutto.
Ogni sequenza è spasmo. Ogni movimento stonatura. Ogni scelta una bestemmia al decoro, al bello. La coppia di protagonisti – lui, Y., musicista da quattro soldi; lei, Jasmine, danzatrice affamata di soldi e carezze – si agita come un Adamo ed Eva sputati fuori dal Paradiso in una danza che è insieme sabba e supplica. “Vogliamo solo essere felici”. Ma nel mondo che ci mostra Lapid, la felicità è una colpa. Un’allucinazione. Un miraggio pornografico.


Yes di Nadav Lapid
Il film comincia con una sequenza indimenticabile. Una festa partorita a Babilonia. I corpi si intrecciano, la musica è un’arma, l’aria tossica. Il capo di stato maggiore canta più forte Love Me Tender come fosse un inno bellico. Il popolo gaudente applaude, ride, si eccita.
Da lì in poi, non è più discesa negli inferi, è sosta. Ma senza Virgilio. Senza appigli. Il protagonista viene incaricato di scrivere un nuovo inno nazionale (irripetibile) mentre Gaza brucia. Lui suona il piano, gli aerei bombardano. È pornografia ideologica. È propaganda da musical. È teatro kabuki in divisa. Ma è vero. È successo davvero. Lapid lo sa, non perdona.
Poi arriva il monologo. Lei, ex pianista ed ex fiamma di lui. Tema 7 ottobre: lo svolge scena dopo scena, con una progressione insostenibile, atrocità dopo atrocità. Un elenco lucido, raggelante, di stupri, decapitazioni, bambini bruciati. Ma subito dopo, come in un cortocircuito etico senza scampo, ecco certe contestualizzazioni pro Pal altrettanto orribili, che dividono il mondo tra vittime pure e carnefici assoluti, cancellando l’umanità con la stessa violenza che dicono di combattere. È il momento più alto del film. Non un lamento, un’accusa a tutto campo. Lapid non cerca assenso. Non chiede lacrime. Fa esplodere la retorica. Prende lo spettatore per la gola e lo obbliga a guardare: nessuno si senta assolto.


Yes di Nadav Lapid
Tutto è contaminato. Il corpo, il cibo, la danza. Si lecca, si ingurgita, si vomita. La bocca non parla: deglutisce, succhia, urla. È un film sulle funzioni basse, sulle secrezioni, sulle viscere. È abiezione dell’anima. È un film sporco, lurido, necessario.
Eppure non è solo distruzione. È anche gesto d’amore, gesto d’arte. Lapid lascia filtrare, in mezzo a tutto questo, una luce piccola, perversa, storta. Una forma di bellezza a condizione della sua rovina, direbbe Georges Bataille. Perché qui la speranza non è promessa: è scandalo. Non è redenzione: è l’osceno che resiste. Il finale è bellissimo proprio perché non chiude. Non consola. Non salva. Ma lascia una fessura. Una ferita che non si rimargina. Che continua a sanguinare, a ricordare, a guardare. Come se l’unico atto etico possibile fosse non distogliere lo sguardo.
Lapid firma un’opera che non sta in piedi, sguscia come un’anguilla ed è aperta da ogni lato. Fatta di sangue, vomito, merda e anche – incredibilmente – gioia. Il suo titolo è un paradosso, il suo schiaffo vigoroso: siamo disperazione, abominio, colpa e impotenza. E non possiamo smettere di voler essere felici. Nonostante tutto.
Sì.