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Vie Privée (2025)
Quando in Vie Privée Jodie Foster – psicoanalista americana trapiantata a Parigi, che parla un francese da manuale Larousse – si ritrova nello studio di un’ipnotista, è Rebecca Zlotowski che entra metaforicamente in scena, per ammaliarci tutti: lo schermo si fa cremisi, il tempo implode, e la nostra dottoressa si scopre violoncellista nella Parigi occupata, con un figlio nazista e un direttore d’orchestra che dirige col revolver.
Un’allucinazione in cinemascope, o forse solo la conferma che, in Francia, anche il subconscio è mise en scène.


Vie Privée (2025) - Jérôme Prébois
È il momento in cui la regista, con disarmante disinvoltura, butta via il manuale di genere e lo sostituisce con un libretto d’opera psicoanalitica. Zlotowski è un’ironista travestita da moralista. Da Grand Central a I figli degli altri, ha sempre filmato il lavoro dei sentimenti con la freddezza di un esperimento chimico. In Vie Privée cambia laboratorio: niente centrali nucleari né famiglie di altri, ma una costellazione di isti – analisti, ipnotisti, oculisti – e una donna che di mestiere ascolta, ma non sa più vedere. Tutto torna: l’analisi diventa spettacolo, il vedere diventa terapia, e il mistero – quello di una paziente suicida o forse assassinata – si riduce a una questione di miopia affettiva.


Vie Privée (2025)
Personaggi che garantiscono il je ne sais quoi del pensiero senza mai rischiare di pensarla davvero. Foster fa l’analista che non sa più distinguere una proiezione da un’emozione; Daniel Auteuil l’ex marito oculista che la “guarisce” ricordandole che ogni lacrima è un sintomo; Virginie Efira la paziente assente che genera tutto il cortocircuito. E poi c’è Mathieu Amalric, vedovo sospetto e direttore d’orchestra mancato, che entra in scena con la sua solita aria da uomo che sa più di quanto dica, e infatti non dice quasi nulla.
In mezzo, un figlio inetto (Vincent Lacoste) di cui la madre sembra ricordarsi solo quando deve dargli la colpa. C’è molto fumo negli occhi e Zlotowski lo sa. Lo usa.
Il film comincia come un giallo, deraglia in una commedia da rimatrimonio, sfocia nel sogno, si raddrizza nella satira e finisce in un sospirone. Non c’è coerenza, ma c’è ritmo, quella scioltezza da “cinema medio” francese anni ’90 che sa essere snob e pop nello stesso fotogramma.


Vie Privée (2025)
Daniel Auteuil – ex marito, ex amore, ex tutto – è il vero sérum anti-dépression del film. Ogni volta che entra in scena, l’intreccio smette di chiedersi chi ha ucciso chi e ritrova verve comica.
Vie Privée resta un film di miraggi: Zlotowski mette il pubblico sul lettino e gli chiede di distinguere il desiderio dalla proiezione. Peccato che il mistero non sia tale perché qui tutto è un po’ troppo spiegato, o troppo poco: la sequenza ipnotica è gratuita e inutile; la linea noir si scioglie come un sogno al risveglio; e il finale, anticlimatico, ci riporta esattamente dove siamo stati durante le due ore: al punto di partenza.


Rebecca Zlotowski
Zlotowski gioca con i cliché del cinema francese contemporaneo: il lutto che diventa introspezione, la borghesia che si psicanalizza, l’intellettuale che si scopre fragile. Ma lo fa con una leggerezza d’ordinanza. L’unico vero colpo di scena è vedere Jodie Foster divertirsi – e in francese – dopo anni di ruoli blindati.
Nel suo piccolo, Vie Privée è un film che parla di come ci raccontiamo per sopravvivere, e di come a volte il racconto – o il cinema – ci sfugga di mano.
Il rischio, oggi, è tutto lì: mentre la serialità ha monopolizzato la psicologia e la piattaforma ha psicanalizzato l’immagine, Zlotowski tenta un gesto d’altri tempi, un film “di mezzo”. Non ci riesce sempre bene, ma lo fa con intelligenza.
In fondo, più che Freud, Zlotowski sembra credere in una massima molto francese: se non puoi risolvere un problema, vestilo bene.