In Couture, Alice Winocour cuce - letteralmente e simbolicamente - le sue ossessioni di sempre: il corpo, il trauma, la resilienza. Il titolo è la chiave di volta di un film che si interroga sulla possibilità (e sul limite) del ricucire. Dalla sartoria all’oncologia, dal gesto della truccatrice che nasconde le piaghe ai lembi di pelle che si segnano per l’intervento, Couture è un film sul “taglio” come gesto fondativo e sul “punto” come tentativo di ricomporre ciò che, forse, non può più essere unito. È un memento mori travestito da backstage drama.

Durante la settimana della moda parigina, Maxine (Angelina Jolie), regista americana chiamata a girare un corto per una maison di alta moda, riceve una diagnosi di tumore al seno che la costringe a confrontarsi con la propria vulnerabilità. Intorno a lei orbitano Ada (Anyier Anei), giovane modella sudsudanese al suo debutto, e Angèle (Ella Rumpf), truccatrice con ambizioni letterarie: tre donne, tre corpi, tre destini legati dal filo invisibile del lavoro e della fragilità.

Couture (2025)
Couture (2025)

Couture (2025)

Il gesto del cucire - riparare, suturare, correggere - diventa, in Winocour, una metafora persino troppo scoperta: è ciò che fa la medicina, ciò che fa il cinema, ciò che fa la moda, ma anche ciò che la vita disfa in silenzio. Se il lavoro della cucitura appartiene alla tecnica, la vita resta irriducibilmente sfilacciata. È in questo scarto che si situa il film: tra l’illusione di poter tenere tutto insieme e la constatazione che il filo non basta. Maxine e Ada lo scoprono sulla propria pelle. Ada inciampa, si infortuna, si rialza: la sua fragilità fisica diventa però, per contrasto, segno di crescita. Per Maxine il corpo è un confine che si chiude, mentre per Ada è un territorio che si apre.

Winocour lavora di rime più che di intreccio. I personaggi camminano, parlano al telefono, si muovono avanti e indietro senza mai davvero spostarsi. Le telefonate - alla figlia, alla madre - scandiscono il ritmo emotivo di un film sospeso tra due continenti e due età. Maxine e Ada sono due straniere, due corpi in transito: una lotta contro la malattia, l’altra contro un destino avverso già nelle radici, entrambe alle prese con il proprio limite biologico e sociale. In mezzo, la truccatrice che sogna di scrivere il romanzo sull’alta moda, funziona come raccordo e doppio implicito della regista: osserva, ascolta, nasconde le ferite degli altri mentre cerca di narrare le proprie. È la cucitrice invisibile del film, la sua voce silenziosa.

Couture (2025)
Couture (2025)

Couture (2025)

Jolie è intensa e vulnerabile. Ci mette il corpo, ci mette la biografia. La sua presenza è magnetica, ma resta trattenuta, quasi anestetizzata. Anyier Anei convince: il suo sguardo incerto è il vero motore emotivo del film. Ella Rumpf è naturale, viva, con quel misto di curiosità e malinconia che tiene insieme tutto. Louis Garrel e Vincent Lindon fanno da contrappeso, portando densità a un racconto che rischia l’evaporazione.

André Chemetoff filma corpi e stoffe con aderenza tattile, mentre il montaggio ellittico di Julien Lacheray evita il climax per privilegiare la continuità (e la reiterazione) dei gesti. La musica di Anna von Hausswolff e Filip Leyman amplifica un sentimento di sospensione: il suono precede il mood, come in Revoir Paris, e fa da ago invisibile che lega insieme le scene. Tutto è calibrato, quasi anestetizzato: luci naturali, camera mobile, realismo “a bassa voce”. Persino il momento apicale - la sfilata nella foresta sotto la tempesta - è una catarsi frenata, più pittorica che emotiva.

Alice Winocour
Alice Winocour

Alice Winocour

All’interno del cinema sulla moda - da Prêt-à-Porter a The Neon Demon, da Il filo nascosto a Saint Laurent - Couture si colloca come un controcampo sobrio, quasi anti-seduttivo. Non mostra il glamour per esibirlo, ma per svelarne la dimensione operativa, artigianale, corporea. Le sue modelle non sniffano, non vomitano, non crollano: lavorano. È la moda ridotta a lavoro manuale, non a performance. Ma in questa scelta, radicale e rispettosa, c’è anche il limite del film: sottraendo lo spettacolo, Winocour toglie tensione drammatica, e il suo backstage rischia di diventare un retroscena ovattato.

Resta l’intuizione di raccontare la moda - e, per estensione, il cinema - come luoghi in cui si aggiusta la realtà, dove il corpo è materia prima e superficie da ritoccare. È un film che parla di ciò che non si può riparare, ma anche della dignità del tentativo. Il dolore resta sotto pelle, il filo tiene, il sangue però non scorre.