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La camera di consiglio
Un tempo si diceva “teatro in scatola” per definire un testo pensato per il palcoscenico e “intrappolato” nello schermo. Apparentemente, La camera di consiglio – nella sezione Freestyle alla XX Festa del Cinema di Roma – soffre di quel limite, con l’unità di spazio racchiusa nel titolo, tematicamente e plasticamente.
Si tratta di una scelta precisa, esplicita nelle intenzioni di una regista parca e navigata come Fiorella Infascelli (quasi un “sequel” della sua ultima sortita di finzione, quell’Era d’estate con Falcone e Borsellino all’Asinara), anche sceneggiatrice con Mimmo Rafele e la collaborazione di Francesco La Licata: l’impostazione teatrale restituisce la tensione e l’isolamento di una condizione, umana e storica, che si esalta proprio nella chiusura in un mondo a parte inevitabilmente legato a quel che accade – ed è accaduto – nel mondo fuori. Una piccola vertigine che si esalta e si plasma quando Infascelli inquadra lo spazio dall’alto, una ripresa a plongée che illumina il bunker nel vuoto di un abisso, una scelta che determina uno scarto perfino metafisico, così come quando si allinea a quello di Sergio Rubini che osserva un diorama.


La camera di consiglio
Sono tracce “teoriche” che si intravedono in un film altrimenti lineare e dritto come La camera di consiglio, che si riferisce alla più lunga della storia giudiziaria italiana: i trentasei giorni in cui otto giurati, blindati in un appartamento-bunker nel carcere dell’Ucciardone, dovettero decidere condanne e assoluzioni per 470 imputati del Maxiprocesso di Palermo.
L’esperienza teatrale si vede nel consumato mestiere degli interpreti, a partire dai protagonisti Sergio Rubini, che si cala nel rigore di un presidente dedito allo yoga e alla religione del diritto, e Massimo Popolizio, un giudice a latere più pragmatico e consapevole della funzione culturale del primo processo che enuncia l’esistenza della mafia e la mette sul banco degli imputati quale struttura unitaria. La si nota, appunto, nel coro dei giurati, tutti chiamati a dare spessore e consistenza a figure altrimenti un po’ sacrificate nella memoria collettiva (Claudio Bigagli, Betti Pedrazzi, Roberta Rigano, Anna Della Rosa, Stefania Blandeburgo, Rosario Lisma).
La fedeltà ai fatti e allo spirito del tempo è garantita dalla consulenza di Pietro Grasso, all’epoca giudice a latere del Maxiprocesso, e i materiali di repertorio collocano la ricostruzione nel giusto contesto. Senza voli pindarici né particolari guizzi poetici, La camera di consiglio ha il valore dell’onestà: così evidentemente didascalico, scarno e asciutto nel suo mettersi al servizio della storia (minuscola e maiuscola).