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Una battaglia dopo l'altra
Una battaglia dopo l’altra, lo stesso campo, lo stesso sguardo: Paul Thomas Anderson. Al decimo lungometraggio, il 55enne regista americano ritrova lo scrittore Thomas Pynchon di cui adatta liberamente - dopo Inherent Vice (Vizio di forma) nel 2014 - Vineland, votandosi a un affresco empatico e coraggioso, scanzonato e straziato, carnale e radicale dell’America ieri, oggi e – scommettiamo – domani.
Si spara, e come altrimenti, e quando Leonardo DiCaprio lo fa con un fucile di precisione da luuunga distanza, be’, la cronaca è provvida di analogie: gli spari sopra sono per noi. E a deflagrare è molto altro: il rapporto padre-figlia, il suprematismo bianco, la rivoluzione (mancata), le misure anti-immigrazione, il libero arbitrio, l’autodeterminazione, non solo, femminile.
Tutto questo ha un signor regista, e dei signor attori: Leonardo Di Caprio, che ha percepito un cachet di 25 milioni di dollari, è per ruolo il primus inter pares, quindi Benicio Del Toro, Regina Hall, Teyana Taylor, la più giovane Chase Infiniti. Poi, ovvero prima, Sean Penn, che nei panni del colonnello Steven J. Lockjaw – lo scriviamo oggi, 17 settembre 2025 – ha vinto l’Oscar 2026 quale miglior attore non protagonista, e quel “non” gli sta perfino stretto. Una prova che per postura, protervia, insulsaggine, ferita scoperta, squarcio profondo si impone tra le migliori, e più kurtziane, allegoriche, commedia dell’arte e tragedia marziale, di questo scorcio di Terzo Millennio: avercene, di Sean Penn.
Sicché Una battaglia dopo l’altra, teoria fricchettona ancorché politica, e prassi già rivoluzionaria e sempre attivista, con passaggio di testimone intergenerazionale e intrafamiliare: rally a Portland con tre ore e mezzo di viaggio sotto il diluvio per l’una, rudimenti di selfie sul divano per l’altro, rien ne va plus. È una lunga storia, carsica nei legami, devastante negli affiori, sorgiva di un Paese dove molto è possibile e tutto succede e il sangue scorre non solo nelle vene, da una parte e dall’altra, nel gruppuscolo libertario e detonante French 75, à gauche, nella setta che più bianca e stranamorica non si può Pionieri del Natale, à droite.
Dentro la prima, contro – non perché sappia, ma per innata giustizia ed esibita vestaglia, Big Lebowski e, The Revolution Will Not Be Televised, Gil Scott-Heron -la seconda, il nostro eroe con ampia licenza di non esserlo è Bob Ferguson (Di Caprio), che sta nella lotta e sta – e meno o vieppiù - con Perfidia Beverly Hills (Taylor), una tipina fina, assai insoumise, che visibilmente incinta smitraglia panza al vento con icastico parossismo, da ridurre Gomorra a tutorial per educande. Con un manipolo di compagni vogliono liberare, e affrancano, i migranti detenuti, ma sulle loro tracce, e qualcosa di più, di segnante e financo seminale, c’è quel cazzabubbolo, quel salapuzio di Lockjaw, action figure del sergente maggiore Hartman di Kubrick, tutto pene e distintivo, epitome in sedicesimi dell’America marziale, del trumpismo senza limitismo, redneck e maglietta fina, bicipiti gonfi e utile idiozia a uso suprematista. E, non così a latere, che vuol dire tradire per e tra questi radicali liberi? Bella risposta.
Metteteci suore coltivatrici e consumatrici di marijuana, sensei ispanici (Del Toro) che proteggono migranti e non rigettano riot, alcool a fiumi e droga questa conosciuta, formazione sentimentale e - molto at large e comunque larger than life - rieducazione civica, ed ecco che Una battaglia dopo l’altra ,con le farraginosità e i giri a vuoto di sceneggiatura dello stesso Anderson, non trascolora il da che parte stare, ma s’annette il che parte avere nel mezzo del cammin di nostra vita, nella comédie humaine di Pynchon e PTA.
Dicunt, è costato qualcosa come 140 milioni di dollari, il budget più alto di sempre per Anderson, e dovrà farne 300 per pareggiare, ma… perché stiamo parlando di soldi, che ci azzecca? The Revolution Will Not Be Televised, e questo – mi son ripromesso lustri fa di non usare la I-word, Infatti, e non lo farò – è cinema Cinema. Con appendice, d’abitudine per PTA, familiare: il ritorno agli affetti non è riflusso ideologico, non è abbandono della sfera pubblica, non è desistenza esistenziale, giacché la famiglia (iper)disfunzionale oscilla tra incubo e incubatrice. Ossia, vive e lotta con noi, una battaglia dopo l'altra.