È un uomo empatico e gentile, Mark Kerr, così affabile che perfino le nonnine in coda per il medico si concedono volentieri due chiacchiere con lui, nonostante rappresenti un “modello negativo” per i nipoti. Come il bambino che, in quella sala d’aspetto, non può non avvicinarsi timidamente all’imponente Kerr, leggenda delle arti marziali miste, per chiedergli un autografo. Siamo alla fine degli anni Novanta, l’accesso alla popolarità – e alla mitologia – passa soprattutto attraverso la televisione e, proprio nel 2000, quella statunitense trasmise per la prima volta la giapponese Pride, considerata al tempo la migliore competizione al mondo per le MMA.

Alla carriera di Kerr, colta nel suo massimo splendore fino a una rovinosa caduta, è dedicato The Smashing Machine, in Concorso a Venezia 82, primo lungometraggio in solitaria dal 2008 per Benny Safdie, che con il fratello Josh ha scritto Heaven Knows What, Good Time e Diamanti grezzi (quest’ultimo anche co-diretto). Un biopic a suo modo tradizionale che trova alcune vaghe convergenze con i temi abituali degli altri lavori firmati da fratelli: l’irrequietezza degli ambiziosi, la tendenza autodistruttiva, il desiderio di uno scatto sociale, il senso di una pressione.

Ma se il look un po’ rétro finisce per rivelarsi addirittura patinato nel suo stare dentro le marche tipiche dell’indie (fotografia con crepuscolo autunnale di Maceo Bishop), è nel ritmo che Safdie sembra discostarsi dal passato, preferendo un passo meno frenetico e delegando molto ai dialoghi più che all’azione. Il che può apparire un paradosso, eppure è evidente quanto le sequenze sull’ottagono siano incaricate di trasmettere il coefficiente emotivo degli eventi piuttosto che quello del puro intrattenimento.

Dwayne Johnson in The Smashing Machine
Dwayne Johnson in The Smashing Machine

Dwayne Johnson in The Smashing Machine

(A24)

E lo è ancor di più considerando il casting di Dwayne Johnson, che al primo ruolo drammatico della carriera (a prova di Oscar) non può che mettersi a nudo con una fragilità finora inedita, risultando tanto inscalfibile nella massiccia struttura (il titolo è dovuto al soprannome, la Macchina Distruttrice) quanto vittima del suo stesso corpo sottoposto a cazzotti e oppiacei. E se c’è qualcosa che manca in The Smashing Machine è proprio l’approfondimento sul fronte delle dipendenze, prima esposte in modo anche piuttosto brutale e poi timidamente accantonate quasi a non volersi prendere carico davvero sia di uno dei grandi non-detti di sport e dintorni sia della conflittualità su cui si edifica il tormento del protagonista.

Un’esplorazione della complessità che Safdie preferisce affrontare con il corpo a corpo tra Kerr e la compagna, un teatro della crudeltà in cui Emily Blunt si spinge sopra le righe per restituire un ménage incandescente, uno scannatoio in cui lui si abbandona alla distruzione come un The Rock qualunque, lei urla e minaccia e una ciotola si propone come allegoria a portata di mano (riparata con la tecnica giapponese dello kintsugi, poi distrutta in una lite e infine incollata con l’attak: l’innocente volgarità americana).

Alla fine, con la sua parte finale di luminoso schematismo, diventa un edificante “inspirational movie”, ma con una correttezza un po’ incolore e il dubbio che si tratti soprattutto di un’occasione mancata.