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Scarlet di Mamoru Hosada
All’inizio Scarlet viene gettata nel regno de morti. Un incipit praticamente di genere, quello di Scarlet di Mamoru Hosoda, fuori concorso a Venezia 82: la ragazza precipita in un oltremondo, un’ipotesi di aldilà e le mani dei morti tentano di afferrarla “romerianamente” da una sorta di fiume infernale. In realtà non è l’inferno, quello postulato dal racconto di Hosoda, ma uno spazio liminare in cui le anime dei vivi convivono con quelli dei morti, in attesa di rientrare nel nostro mondo oppure di dissolversi.
Aldilà viene chiamato, appunto, ma è di fatto un limbo. La protagonista Scarlet vi precipita perché viene avvelenata: il padre e sovrano Hamleth è stato ucciso dal fratello Claudius che gli usurpa il trono, la ragazza beve dalla coppa sbagliata. E precipita nell’altro mondo, non sappiamo ancora se viva o morta. Come chiaro, la premessa famigliare è quella shakesperiana dell’Amleto; ma l’archetipo viene percorso anche nelle sue variazioni, come nelle figure di Rosencrantz e Guildenstern già “uccisi” da Tom Stoppard nella sua nota versione.
Scarlet nella Terra dei Morti, dunque. La giovane, lunghi capelli rosa e una tenace voglia di vendicare il padre, qui incontra Hijiri, un ragazzo che proviene da un altro tempo: il nostro, ed è un paramedico, uno che aiuta gli altri attraverso il lavoro di cura, uno che sostiene di essere ancora in vita. Tanto lei elimina con la spada ogni antagonista, quanto lui si ferma a medicare e ricucire; un’antitesi riassunta nelle immagini di Hijiro che cura le ferite provocate da Scarlet. I due si conoscono, avvicinano e attraversano insieme la terra incognita, all’insegna di un intreccio spazio-temporale di epoche, alcune mitiche e altre reali (il presente) già frequentato dal regista. Nell’affastellarsi avvincente di incontri, situazioni, visioni c’è un’idea che governa il racconto: quella di superare l’ostilità e arrivare alla possibilità della pace, trasformando la sete di vendetta nella necessità del perdono.
Per l’eroina Scarlet tutto ciò è impensabile, d’altronde il re e padre è stato spietatamente ucciso: ma nel corso del periplo qualcosa cambia… Mamoru Hosoda, ormai maestro di anime, costruisce un poema visivo per lunghi tratti magnifico, in cui l’invenzione è davvero inesausta e le immagini non danno tregua: dal meccanismo più splatter (morti, sangue, colpi di spada) allo sguardo fantasy che spiega le ali e ci trasporta altrove, davanti a un nemico temibile o al maestoso passaggio di un drago. Poi, però, come detto si ricade anche nel presente, tanto che a un certo punto interviene una sequenza musicale sublime (“Raccontami che cos’è l’amore”) in grado di unire Scarlet e Hijro che ballano insieme, dolcemente, nel mondo di oggi. Una danza impossibile, dunque ancora più struggente.
Hosoda compone un canto pacifista, un invito a fermare tutte le guerre: non lo fa con la mera enunciazione di una tesi, ma attraverso la forza delle immagini. Non è forse questo il modo migliore per lanciare un messaggio? Di più, Scarlet propone perfino il superamento dei conflitti nel tempo futuro, in modo da salvare l’amato in qualche dimensione dell’esistenza. Quanto al tratto di Hosoda, col suo Studio Chizu, qui c’è poco da dire, basta vedere il corpo etereo di Hijiro che lentamente si dissolve davanti a Scarlet, coi frammenti di lui che si librano nell’aria come carta bruciata. C’è solo da vedere. Il film riporta allo stupore dell’immagine, coniugandola al tema decisivo della pace con esiti felici. Un picco del Festival