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Remake
“I was a father, I was a filmmaker” dice Ross McElwee, l’uomo che filma sempre e tutto, come se la telecamera fosse una propaggine del corpo, un dispositivo dell’anima. Il cui atto del filmare è una lente per comprendere la realtà familiare, lo stato delle relazioni, la misura del tempo. McElwee è un autorevole e influente documentarista, noto per i lavori autobiografici spesso ad alto voltaggio umoristico e comunque capaci di rappresentare questioni sociali e filosofiche più ampie, su tutti quel Sherman’s March, capolavoro del cinema verité tra saggistica osservazionale, home movies e meditazioni romantiche.
A settantotto anni, dopo una lunga gestazione, approda al film della vita – letteralmente – con Remake, presentato Fuori Concorso a Venezia 82 (e non poteva esserci collocazione migliore, essendo la Mostra del 2011 uno scenario decisivo nella narrazione), che trova proprio nelle pieghe del titolo, nel concetto di rifare qualcosa, il senso di un’operazione che costituisce una straordinaria restituzione pubblica di una circostanza profondamente privata.
Si parla del rapporto tra McElwee e suo figlio Adrian, il più complice tra i congiunti che, negli anni, si sono prestati ai progetti del regista per poi negarsi per ritrosia (la prima moglie che chiede e ottiene di non essere più parte dei filmini, quasi un annuncio della frattura matrimoniale) o per attitudine (la figlia adottiva, che nell’adolescenza si scopre ovviamente meno incline a farsi seguire da quel padre così “ingombrante”). È un legame elettivo, quello tra i due maschi della famiglia, con il figlio che si offre subito all’occhio del padre, non solo ben contento di dialogare con “l’uomo dietro la telecamera”, condividendo sin da bambino giochi e pensieri, ma anche per una istintiva corrispondenza nel relazionarsi con il fare cinema, con il gesto creativo del ripensare la realtà per rifarla in uno spazio sospeso tra testimonianza e rielaborazione, qui-e-ora e altrove.
La prima parte di Remake è un collage di materiali eterogenei: home movies che seguono il percorso di crescita di Adrian e frammenti dei film diretti da McElwee, ponderazioni sulle vicende personali accostate a immagini di grande impatto minimalista (il divorzio spiegato sì a parole ma anche con oggetti, disordini, case che si svuotano) e materiali di altra fattura. Come il flipbook realizzato dal piccolo Adrian che funge da oscuro presagio e da cerniera emotiva con la seconda parte, dedicata all’ultimo anno di vita del figlio. Che, crescendo, si è avvicinato al mondo delle dipendenze, travolto dalle droghe e dagli alcolici e ciclicamente finito in comunità di recupero.
Oltre a testimoniare quel che è stato con il filtro dell’autore, Remake trova la sua ragione d’esistere – anzi, di sopravvivere al nulla – nell’impossibile, disperato desiderio di tornare indietro per rifare la realtà. E nella seconda parte monta anche i filmati girati da Adrian, che a partire da Photographic Memory (presentato proprio a Venezia nel 2011) si fa coinvolgere più consapevolmente nel lavoro del padre: quel documentario, una riflessione sullo scorrere del tempo, sulla prassi dell’impressionare le cose, sulla differenza tra digitale e analogico, affronta il conflitto con un figlio che non era più un adorabile bambino ma un giovane adulto in guerra con il mondo. E fa capire al ragazzo come il filmare – un’attività in cui il padre l’ha sempre coinvolto senza speculare: “Avresti potuto rendermi una baby star” – possa essere un’opportunità di riscatto, una forma espressiva per provare a fare pace con i demoni.
Remake è anche un film sulle occasioni mancate: quella dell’adattamento di Sherman’s March nella serialità televisiva (a un certo sarebbe dovuta diventare una sit-com, alla fine diventa una sorta di opera lirica); e quella del documentario di Adrian, che decide di denunciare il business delle tossicodipendenze negli Stati Uniti attraverso le immagini in cui si riprende mentre assume droghe o sotto effetto. È anche la straziante testimonianza di un senso di colpa: Adrian, morto per un’overdose nel bagno del padre, ha lasciato un’eredità visiva in cui mette in scena la propria tragedia, usando appunto il linguaggio che, in qualche modo, gli ha insegnato il padre.
“I was a father, I was a filmmaker”, appunto: meraviglioso e lacerante, Remake è il tentativo di emancipazione dalla maledizione delle immagini che diventa l’occasione per un percorso terapeutico che parta proprio dalle immagini. Che restano, siano esse gioiose o drammatiche: “È il mio tentativo di tenermi stretto Adrian, e di lasciarlo andare” ha detto McElwee. Difficile dirlo meglio.