Nel titolo c’è la chiave: Re-creation, dove nel ri-creare c’è l’essenza del true crime, con la ricostruzione del fatto in sé, del caso di cronaca in sé, che non può fare a meno di un atto narrativo incardinato sulla sua re-immaginazione. Il delitto al centro del film è vero: la vittima è la produttrice francese Sophie Toscan Du Plantier, avvenuto in Irlanda nel 1996. Il principale sospettato, il giornalista Ian Bailey, vicino di casa della donna, è stato arrestato due volte ma non è sato condannato per mancanza di prove. Sotto processo in Francia e mai estradato dall’Irlanda, Bailey è stato condannato in contumacia nel 2019 ed è morto nel 2024. Il caso, com’è noto, è intricato e oscuro e negli ultimi anni è stato ripreso da miniserie, podcast e trasmissioni.

Re-creation
Re-creation

Re-creation

(Jan Gerlach)

Anziché andare sul campo o raccontarlo in forma giallistica, il navigato Jim Sheridan e il documentarista David Merriman scelgono un’altra strada: immagina il processo che Bailey non ha avuto, chiudendo in una stanza i dodici membri della giuria popolare. La parola ai giurati, ovviamente, è un riferimento naturale, tant’è che lo schema si dichiara da subito lo stesso: il quasi unanime verdetto di colpevolezza viene messo in dubbio dalla giurata 8 (lo stesso numero nel dramma di Reginald Rose), che, guidata dal dubbio e del peso della responsabilità, mette in crisi le certezze di tutti i colleghi, portandoli via via sul fronte innocentista.

Presentato nel concorso Progressive Cinema della XX Festa del Cinema di Roma, Re-creation è una rivisitazione della realtà nella forma asciutta di un dramma da camera che professa il rigore e delega l’azione alla parola, un esercizio di retorica che monta la tensione senza ricorrere a sensazionalismi estetici. L’operazione è già tutta nei nervosismi di Vicky Krieps, nella sua incapacità di trovare pace quando decide di esporsi, nella sua impropria e rapida risatina che svela l’inquietudine della coscienza e annuncia l’adesione a un registro etico, a un obbligo morale.

Ed è nelle granitiche certezze di John Connors, il giurato che non può prescindere dalle tragedie private e forse mai risolte per confrontarsi con un caso che è uno spettro per e dentro la sua coscienza. E l’operazione, teorica e pratica, sta nella postura autorevole e accogliente dello stesso Sheridan, che non a caso sceglie per sé (un debutto a settantasei anni) il ruolo del presidente di giuria, consapevole che la verità in quanto tale non esiste, una guida che si lascia toccare dalla necessità di porre le domande di cui siamo convinti di conoscere già le risposte.

Jim Sheridan e Colm Meaney sul set di Re-creation
Jim Sheridan e Colm Meaney sul set di Re-creation

Jim Sheridan e Colm Meaney sul set di Re-creation

(Rich Gilligan)

Re-creation è ucronico nella misura in cui immagina una traiettoria alterativa (“what if?”), ma non è lo è nelle conclusioni: il punto non sta nel condannare o graziare l’imputato, ma nell’approccio che conduce chi è chiamato a decidere sul destino delle persone, nel mettere in luce le ambiguità e le zone d’ombra di un’indagine (il tema del movente, l’assenza di un riscontro del DNA, il ruolo del marito Daniel, gli errori e le approssimazioni).

È quel titolo, Re-creation, si rivela appieno nella parte finale, con la “messa in scena” del delitto che configura il senso profondo di questo film a tesi ma diventa anche una piccola lezione di cinema: di recitazione per come un attore ricorre al privato per restituire un personaggio, di fotografia per l’economia nell’illuminazione di un interno, di regia per come calibra gesti, spazi, movimenti. La “morale” è affidata al finale: al di là della giustizia degli uomini, i conti con se stessi si fanno altrove.