Tommy (Anson Boon) è un diciannovenne irrecuperabile. Dopo l'ennesima notte di bagordi, fatta di droghe e alcol a fiumi, viene rapito. Rina (Monika Frajczyk) è un’immigrata clandestina che fa domanda di lavoro come governante in una grande e isolata tenuta di campagna. Le viene imposto un accordo di riservatezza e, al primo ingresso in quella casa, deve riporre lo smartphone. È attraverso i suoi occhi che ritroveremo nuovamente Tommy, ora imprigionato nel seminterrato di quella magione, con una catena al collo.

Gli aguzzini (?) sono Chris (Stephen Graham) e sua moglie Kathryn (Andrea Riseborough): il rapimento fa parte del disegno di questa famiglia disfunzionale (c’è anche il figlioletto Jonathan, che loro chiamano “Sunshine”…), decisa a trasformare Tommy in un “bravo ragazzo”.

Ed è proprio Good Boy (epiteto che non a caso viene utilizzato per rivolgersi ai cani di compagnia e, coincidenza, titolo omonimo dell’horror-canino di Ben Leonberg ospitato in apertura di Alice nella Città) il nuovo film del regista polacco Jan Komasa – nel 2020 in cinquina Oscar con Corpus Christi – che dirige la sua prima opera in lingua inglese (tra i produttori Jeremy Thomas e Jerzy Skolimowski) per esplorare la “sottile linea di demarcazione tra amore e tirannia, silenzio e violenza”.

Bravo a costruire una credibile atmosfera dove isolamento e claustrofobia vanno a braccetto, Komasa è altrettanto abile a dirigere un ottimo cast, trovando un insano equilibrio nel rapporto ambiguo tra Graham (che non ha più nulla da dimostrare, qui con parrucchino e modi iper-controllati) e la moglie Riseborough (silenziosa, spettrale), riuscendo ad esaltare le innegabili doti del giovane Anson Boon, talento esplosivo.

Sottoposto inizialmente ad una sorta di nuova “cura Ludovico” che alterna video di supporto emozionale ad altri reel di matrice social autobiografica (con le numerose nefandezze da bullo incontrollabile), il suo personaggio si troverà a dover scegliere tra compiacere i suoi rapitori (“La fiducia è un processo, deve essere costruita”) o aspettare il momento propizio per fuggire da quella “prigione”.

Inevitabilmente derivativo (da Arancia meccanica a Funny Games, oltre a tutto il filone relativo ai kidnapping movie in chiave torture porn), Good Boyin concorso Progressive Cinema alla XX edizione della Festa di Roma – promette molto più di quello che mantiene (francamente superflua e incomprensibile la linea narrativa del personaggio di Rina…), quasi afflosciandosi rispetto alle iniziali premesse, in qualche modo seguendo però il percorso stesso del suo prigioniero, che scopre una nuova nitidezza nel “vedere” (abbastanza apparecchiata la metafora degli occhiali) e di leggere tra le righe di sfumature dapprima impensabili (e qui ci penseranno anche i libri).

Ed è proprio a quel finale così tremendamente e moralmente equivoco che Komasa affida la domanda principe annidata nel suo lavoro: “In un mondo affamato di attenzione, la libertà è ancora desiderabile se nessuno ti vede? Sceglieremmo l’autonomia in solitudine o preferiremmo rinunciare alla libertà per il conforto di cure costanti?”.

Per “migliorare”, ritrovare l’essenza di noi stessi, l’unica via è lasciarsi incatenare? Ma, soprattutto, cosa significa davvero essere un good boy?