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CALIFORNIA SCHEMIN’_ Credit Mark Mainz
Appropriazione culturale e riappropriazione identitaria: o, se vogliamo, un Braveheart rap. Il cuore impavido, qui, batte nel petto di due giovani scozzesi impiegati in un call center di Dundee e aspiranti nuovi Eminem in un Regno - quello Unito, ma anche quello musicale - dove a dettare legge è ancora l’imperialismo americano. Le case discografiche cercano i nuovi Kendrick Lamar, i nuovi Jay-Z, perfino i nuovi 50 Cent, ma non certo tra i ragazzi dal pallore nordico e la “r” arrotata del Nord. Le audizioni non mentono: se vieni da un paesino di provincia e il tuo accento sa di pioggia e pub, la porta resta chiusa.
Ed è allora che arriva il colpo di genio, o la truffa perfetta: fingersi californiani, rifarsi il look, l’atteggiamento, l’accento, e tentare di vendere il tutto a quei “scozzeisti” travestiti da talent scout londinesi. Detto fatto. Nascono così Silibil N’ Brains, due ragazzi “di Hemet, California” che in realtà non sono mai usciti dalla Scozia. Si inventano una biografia, un immaginario, un modo di parlare e perfino un codice di comportamento. E l’amo, puntualmente, abbocca: una delle major più potenti di Londra li mette sotto contratto, guidata - ironia del destino - da un altro scozzese, interpretato dallo stesso James McAvoy, qui al suo esordio dietro la macchina da presa.
L’intento dei due falsi rapper è, in principio, quasi nobile: smascherare l’ipocrisia di un sistema che predica inclusione ma pratica discriminazione. Registrare un singolo, salire su MTV, e rivelare tutto in diretta. Ma il successo, come spesso accade, dà alla testa. E a quel punto è impossibile fermarsi. Tra loft in comodato d’uso, party infiniti, groupie e cocktail di eccessi, la farsa si fa realtà, e il momento della confessione slitta sempre un po’ più in là. Finché la verità non presenta il conto.


James Mcavoy Credits To JUANKR
Tratto da una storia incredibile ma vera - quella di Gavin Bain e Billy Boyd, già raccontata nel documentario The Great Hip Hop Hoax - California Schemin’ si regge su un equilibrio tra commedia e dramma, mito pop e crollo dell’illusione. La prima parte è spassosa, travolgente, sostenuta da performance hip-hop elettriche e da una regia che sa amplificare i decibel e la vitalità visiva delle loro esibizioni: McAvoy mostra una mano sicura, un gusto per il ritmo e per il movimento che richiama certo cinema britannico anni ’80, quello di Bill Forsyth o del giovane Danny Boyle.
È nella seconda metà, più grave e moraleggiante, che l’opera perde un po’ di smalto. Quando arriva l’agnizione, la parabola del successo declina nella predica. Ma anche così risuona qualcosa di personale: la riflessione, tutta scozzese, sul prezzo dell’autenticità e sull’impossibilità di fuggire dalle proprie origini.
A tenerla in piedi, fino all’ultimo, sono Séamus McLean Ross e Samuel Bottomley, straordinari nel catturare la fragilità e la rabbia di due ragazzi che vogliono solo essere ascoltati. McAvoy, da parte sua, non reinventa la grammatica del biopic musicale, ma la rilegge con un’intonazione sincera, convenzionale forse, ma mai artificiale. Da attore che ha spesso celato la propria voce di Glasgow dietro inflessioni d’oltremanica, costruisce, in fondo, un’autobiografia mascherata: la storia di chi per essere ascoltato deve fingere di non essere ciò che è. Il film si chiude con le immagini in Super 8 dei veri Silibil N’ Brains, due ragazzi che sognarono di diventare americani e finirono per tornare scozzesi.