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Sciatunostro
C’è un tempo che scorre e un tempo che resta. Sciatunostro di Leandro Picarella abita la soglia tra i due: una frontiera respirata, un “sciàtu” – fiato, soffio – che lega un’isola al suo doppio interiore. L’estate è l’ultimo corridoio aperto, l’amicizia la misura dell’addio; Ettore e Giovannino camminano dentro giornate elastiche, con la geometria semplice dei giochi e la gravità muta dei pensieri che vengono. L’isola – Linosa – non è sfondo ma organismo: piante di fichi d’India che armano la luce, una nidiata di pulcini che si stringe in controluce, il porto come luogo-prospettiva, teatro di partenze immaginate e di ritorni rinviati. Sopra, un cielo arruffato di nuvole e pensieri, sospeso nel mezzo della vita, senza approdi e aperto in ogni direzione.


Sciatunostro
Picarella lavora sul regime temporale delle immagini come su una stratigrafia emotiva: Super 8, VHS, digitale. Ogni supporto è un modo di credere al tempo, una grammatica dell’attenzione. La grana del Super 8 è l’innocenza ottica; il VHS l’eco domestica; il digitale è la realtà che chiede di essere adesso, e nitida. La moviola – espediente e gesto – non serve a “riavvolgere” il passato, bensì a cercare il suo palinsesto, gli strati che uniscono i vivi e le loro immagini. Da qualche parte, in quell’archivio che pulsa dentro il film, la vita ha già avuto luogo: rivederla diventa un modo di ritardare il distacco e insieme di accettarlo.


Sciatunostro
L’amicizia è il primo paesaggio morale. Ettore sta per partire, Giovannino impara la regola discreta del lasciare andare. L’estate, con la sua falsa eternità, li tiene per mano. Il cinema – questo cinema – ascolta più che raccontare. Documentario e finzione si confondono come due correnti dello stesso mare; intimismo e sguardo antropologico si dividono la stessa soglia; coming-of-age e visione ambientale non si escludono: l’una è la condizione dell’altra. Crescere significa imparare a nominare il vento, a capire che un’isola è anche un archivio di gesti, una mappa di superstiti. A cogliere nella realtà un senso secondo, profondo. Le immagini bruciate di un’Isola siciliana – braci, bagliori, un’aria che ha memoria di fuoco – attraversano il racconto come un monito: il tempo naturale non è solo scenografia, è materia politica. Ma la polis di Picarella non è fatta di cialtroni e proclami, ma di custodi: la sua etica è nell’attenzione, nel voltarsi piano, nel concedersi al silenzio.


Sciatunostro
Una colonna sonora elettronica che riaffiora dagli anni Ottanta fa da corrente sotterranea. Nelle sue modulazioni si annidano i battiti di un’epoca che torna come ritorna un motivo pop. Ecco Playa (Baby K con Francesco Bianconi) la leggerezza balneare che si incrina, l’estate come invenzione collettiva, come superficie festosa che copre il melanconico dovere del congedo. E nell’ultimo movimento, sulle immagini private che il film convoca come una veglia, la voce di Fiorella Mannoia, Il tempo non torna più, è il monito che ricorda a tenere ciò che si lascia.


Sciatunostro
Perché, allora, l’espediente delle vecchie immagini? Perché il presente è ossessionato dal found footage? La risposta è duplice. Da un lato l’archivio amatoriale (di Pino Sorrentino, videoamatore che da decenni registra la vita di Linosa) è il contro-campo della memoria: restituisce al reale la sua seconda vita, ne mostra i nodi e le omissioni, ci ricorda che vedere è sempre rivedere. Dall’altro lato, il found footage è il sintomo di una condizione: viviamo dentro un eccesso di presente che consuma subito il suo stesso racconto; il ricorso alle immagini d’epoca reintroduce ritardo, frizione, scarto – cioè tempo pensante. In Sciatunostro l’archivio non è citazione feticistica, ma strumento di responsabilità: una comunità si specchia in ciò che ha filmato di sé, impara a riconoscersi e, forse, a cambiarsi.


Leandro Picarella
L’isola di Picarella è un laboratorio dell’elementare. L’acqua, le pietre, il sale; la corsa dei bambini sul molo; le mani che costruiscono e riparano; i nomi pronunciati a mezza voce; il dialetto come spartito affettivo. Ogni elemento ha qualità archetipica: non per alzare un monumento, ma per distillare il presente. Il regista inquadra da vicino, senza essere intrusivo. Il montaggio funziona per affioramenti: un’immagine chiama l’altra. E il porto torna e ritorna – luogo-prospettiva, davvero – fino a diventare il segno visivo della scelta che incombe: partire, restare, imparare a fare entrambe le cose.


Sciatunostro
Il film pratica una rara delicatezza – qualità sempre più rara nel nostro cinema, spesso costretto tra l’iperbole e la cronaca. Qui la cronaca c’è, ma passa attraverso il respiro: la camera ascolta la durata delle cose, si concede la pazienza di aspettare un cambio di luce, una risata, una esitazione. L’archeologia dei formati – dalla povertà luminosa del VHS alla lucidità del digitale – non è manierismo, ma pedagogia dello sguardo: ci educa a capire che ogni immagine porta con sé una politica della memoria e una fenomenologia del tempo. Rivedere significa credere una seconda volta. E credere, qui, non è un atto ideologico: è prendersi cura.
In fondo Sciatunostro si costruisce come una domanda: come si diventa grandi? La risposta – provvisoria, umana – è nella parabola di due ragazzi che imparano che crescere non coincide con andarsene, ma con il trattenere a un livello più profondo. L’ultimo sguardo – come ultimo non è, perché il cinema è una macchina di ritorni – lo affida alle immagini “povere” dei filmini: lì la vita si consegna a se stessa senza retorica. “Il tempo non torna più” non è un funerale, è un invito a filmare meglio, a ricordare con più coraggio, a vivere con la giusta moviola, quella che non cancella nulla ma permette che un’epifania – anche minima – avvenga.