Al centro del cinema di Wes Anderson c’è la simmetria. Ogni inquadratura è perfettamente scomponibile in parti uguali o complementari. L’esempio lampante è stata l’installazione che ha creato alla Fondazione Prada, il Bar Luce. Ha dichiarato di averla ideata in maniera opposta a come delinea i suoi set, ma in realtà i punti cardine ci sono tutti: l’equilibrio degli elementi, le sfumature, le colonne che indicano dove guardare. Gli angoli si smussano e diventano curve. Nell’Anderson-pensiero i dettagli si moltiplicano, sono bilanciati. I colori pastello proiettano in un mondo retrò, in un turbinio che richiama gli anni Cinquanta e Sessanta. Ha creato un immaginario personale, sovraccarico, che abbraccia i cinefili di ogni latitudine.

Ormai si dice che faccia sempre lo stesso film, che dopo Grand Budapest Hotel non ci sia più nulla da inventare. Ma qualcosa sta cambiando. I toni si stanno facendo agrodolci, più cupi. Dall’armonia si passa alla frammentazione, le favole non sono così incantate. Asteroid City si focalizzava su una comunità in mezzo al deserto, dove le sfide erano il lutto, l’isolamento e infine un’invasione aliena, ammiccando anche alla pandemia.

Ora in La trama fenicia, in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes (Anderson è un ospite fisso), si affronta il tema dell’aldilà e l’anima del progetto si fa in parte testamentaria. La religione è molto presente attraverso il personaggio di una giovane che sta per prendere i voti. Il suo nome è Liesl. Suo padre è il protagonista: Zsa-zsa Korda, un uomo d’affari che piega la legge al suo volere. Più volte hanno tentato di ucciderlo, e ora inizia a pensare al futuro. Non vede Liesl da sei anni, ma vorrebbe che fosse la sua erede. La fede si scontra con gli interessi economici. Chi vincerà? Non saremo noi a svelarlo.

Ma ciò che colpisce è la rappresentazione ultraterrena realizzata da Anderson. L’ispirazione è alle icone, alle immagini sacre. Zsa-zsa Korda ha delle visioni: le immagini vengono desaturate, il protagonista viene processato per ciò che ha fatto in vita, incontrando anche Dio in persona. Anderson è più riflessivo del solito. Non muta la sua poetica: lo spirito è leggero, il ritmo è sincopato, ammiccando al surreale. Ma qui è come se facesse un passo in più, aggiornando un tema a lui caro: quello di trovare il proprio posto nel mondo. In Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore due ragazzi scappavano proprio per essere padroni del loro destino. Ed è così per la maggior parte dei suoi personaggi.

Qual è quindi il senso dell’esistenza secondo Anderson? La risposta è in continuo movimento. Adesso è come se stesse alzando gli occhi verso l’alto, ma senza tradirsi. Il montaggio è sempre accelerato, i dialoghi si sovrappongono, le cromature si moltiplicano. Ma è come se il sogno si stesse incrinando. Anderson si sta facendo più maturo.

In L’occhio del regista curato da Laurent Tirard, nell’intervista a Takeshi Kitano, si legge: “Il cinema è un fatto molto personale. Quando realizzo un film è soprattutto, e prima di tutto, per me stesso. È come una meravigliosa scatola di giocattoli con la quale gioco. Una scatola di giocattoli molto costosa, certo, e qualche volta mi vergogno di divertirmi tanto. Arriva il momento, però, in cui il film è ormai finito, e non ti appartiene più”. Noi non sappiamo quanto Anderson pensi al suo pubblico quando gira. Ma il principio della “scatola di giocattoli” lo potremmo applicare anche a lui. Di sicuro si diverte, infonde entusiasmo, anche se i detrattori spesso sostengono che la forma utilizzata porti a una mancanza di empatia. Ma è come se fosse arrivato il momento in cui “il film non gli appartiene più”. Il suo cinema sta facendo un percorso, sta diventando altro, si misura con il trascendente. E forse esorcizza le sue paure portate dallo scorrere delle primavere. Resta coerente, ma si aggiorna. L’incanto si fa disincanto.

La trama fenicia si inserisce in questa nuova corrente che insegue un’utopia: l’obiettivo di Zsa-zsa Korda è dar vita a un’opera mai realizzata. Proprio come in Megalopolis di Francis Ford Coppola (costruire la città perfetta) e The Brutalist di Brady Corbet (innalzare una struttura all’avanguardia, attraverso i decenni). Si lavora sul livello del sogno, questa volta in modo più accorato. C’è l’azione, l’adrenalina, il magnetismo famigliare che avvicina i padri ai figli.

Anderson è quindi uguale, ma diverso. Non inventa nulla, mantiene una poetica che lo definisce (e che in molti cercano di copiare senza successo), ma cambia marcia. Forse per i prossimi film il nostro pianeta non sarà più sufficiente, e Anderson dovrà spostarsi altrove. Noi restiamo in attesa, consapevoli che il percorso è segnato, ma che il domani regalerà di sicuro qualche sorpresa.