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Nella parte finale di Jay Kelly, tredicesimo film di finzione in trent’anni di Noah Baumbach, in concorso a Venezia 82, il protagonista titolare – una star di Hollywood che solo per una questione narrativa non chiamiamo George Clooney – incontra un suo collega meno blasonato, interpretato da Patrick Wilson. Il luogo – o il set – è un bosco toscano, vicino al paese in cui entrambi sono stati invitati per un tributo (“L’Italia è l’unico posto al mondo che premia due maschi etero bianchi”).
Kelly cioè Clooney, che si trova in una fase di crisi, è rimasto praticamente da solo, abbandonato da congiunti e collaboratori (o amici, ma “gli amici non prendono il 15% dei tuoi guadagni”, no?) che covano rancori di vario tipo nei suoi confronti. Wilson, invece, che ha una carriera meno prestigiosa, è accompagnato da tutta la numerosa famiglia, ben contenta di stargli accanto in un momento tanto importante. Un uomo solo ma di successo e un uomo amato benché meno rilevante.


È un momento efficace ma piuttosto didascalico che definisce bene i limiti di un ottimo film come Jay Kelly, che nella seconda parte sembra affannarsi alla ricerca di una morale che dica qualcosa di definitivo sul grande tema su cui si edifica la storia, quello annunciato dalla citazione di Sylvia Plath in apertura: la responsabilità infernale di essere se stessi, la facilità di essere qualcun altro o nessuno. È un corpo a corpo con l’identità, con il dramma di chi finge per lavoro e non sa collocarsi nella realtà, con l’inclinazione a disincarnarsi in un ruolo, in un personaggio, in una pura funzione per non incaricarsi davvero degli altrui traumi dei quali, a volte, si è responsabili.
Non a caso i titoli di coda (non è uno spoiler) accumulano il titolo Jay Kelly in vari e diversi font, come fossero estrapolati dai film interpretati dall’attore, quasi a dire che l’unico modo per restituirne l’identità è proprio ammucchiando le versioni alternative del suo nome. Talmente sfuggente che il videotributo monta scene della vera carriera di Clooney. Jay Kelly è tutti gli attori della storia, è come quei Gary Cooper o Cary Grant che il protagonista nomina guardandosi allo specchio, in una litania che prova a riappropriarsi di quei nomi e delle loro storie per non svuotarli di quell’identità forse perduta.


Va da sé che Clooney ne sia l’interprete ideale: Kelly è considerato “l’ultima grande star del cinema americano”, non funziona più al botteghino ma gode di uno status innegabile e viene riconosciuto da tutte le generazioni. Di suo ci mette un coefficiente di consapevolezza divistica e di malinconia anagrafica, un disincanto che gli permette di sfoderare il sorriso magnetico dando per scontato che possa trattarsi di una maschera (la tinta che non è ancora il tempo di abbandonare).
Dopotutto Jay Kelly si muove dichiaratamente – e con disinvoltura – tra scatole della finzione (il set del primo pianosequenza, il provino che gli cambia la vita, il finale), stanze della mente (letteralmente: Kelly accede ai ricordi tramite corridoi e porte), campi di battaglia (il bar in cui si scontra con il vecchio amico, un clamoroso Billy Crudup; il campo da tennis dove Adam Sandler, magnifico e struggente factotum, deve interrompere la partita con la figlia per raggiungere il capo/amico), set di fatto (la parte europea, quella italiana in particolare, è stereotipata nella misura in cui passa attraverso lo sguardo turistico), con i piani che talvolta si mischiano (le riprese con l’allora fidanzata attrice dirette dallo stesso Baumbach).
Per Baumbach e Emily Mortimer (nell’inedita veste di sceneggiatrice, ma ha anche un piccolo ruolo come parrucchiera) è un’occasione per intrecciare spunti autobiografici e suggestioni cinefile, parlare di un mondo che conoscono senza eccedere in bizzarrie o luoghi comuni ma raccontandone i tormenti e le inquietudini, dagli attori falliti (il discorso sul Metodo di Crudup) agli entourage schiacciati dai divi (le cene interrotte che avrebbero potuto cambiare vita, come sa la sempre infallibile Laura Dern) fino ai mentori decaduti (lo struggente Jim Broadbent che muore avendo in testa il finale del film che mai realizzerà) e i famigliari che subiscono (Greta Gerwig come insicura moglie di Sandler).


E, da straordinario narratore di famiglie disfunzionali qual è, Baumbach non può non approfittarne per parlare di paternità fragili (Clooney, contestato dalla figlia Riley Keough, che si lamenta del padre egomaniaco, un eccellente Stacy Keah), eredità ingombranti (la figlia Grace Edwards che vorrebbe fare l’attrice), sentimenti scomparsi (le ex mogli non esistono, ma che fine ha fatto l’amore?).
Qualcosa non funziona, la seconda parte propone riflessioni un po’ scolastiche (ma Clooney che balla in piazza sulle note di Rumore e Il cobra è un gran momento), però vanno riconosciute a Baumbach la fiducia nella commedia (che vive proprio perché si fonda su un dramma), la scelta di non cedere alla ricomposizione a tutti i costi, l’interesse per i maschi in panne, una battuta finale che spacca il cuore.