Qualche film, qualche libro e le fotografie di Ferdinando Scianna sono stati “fatali” per Roberto Andò, il più colto tra i nostri registi. Una rivelazione che, in una certa misura, potrebbe addirittura renderlo il vero protagonista di Ferdinando Scianna – Il fotografo dell’ombra, il documentario presentato Fuori Concorso a Venezia 82. Come se il ritratto del grande fotografo – primo italiano a far parte dal 1982 dell’agenzia Magnum Photos – di Bagheria sia in realtà un’ipotesi di autoritratto in fieri, una sorta di “autoparafrasi” a un’opera che si sviluppa tra cinema, teatro e narrativa.

È un’idea che sembra emergere quando, nella parte finale, Andò e Scianna si dirigono verso la casa-museo di Leonardo Scianna, mentore di entrambi, un luogo che non hanno più frequentato dalla morte dello scrittore. Nel pellegrinaggio in auto, Andò si abbandona a una confessione pudica nella forma (di profilo, non guarda mai in macchina) ma ricca nel contenuto, con il ricordo della veglia al cadavere eccellente, la pace con Vincenzo Consolo, il senso di vuoto provato all’epoca, l’eredità di Sciascia in film come La stranezza e L’abbaglio. Un passaggio insolito per come l’erudito regista si mette a nudo, ma che completa un atlante degli affetti utile a disegnare il panorama di riferimenti che sta alla base della sua opera: citiamo quel Francesco Rosi spesso citato come maestro, Sciascia e, appunto, Scianna.

Ma è proprio nelle sequenze in auto che quello che potrebbe sembrare un autoritratto nascosto in piena vista si ricorda di essere il ritratto di Scianna. E a Scianna, ottantadue anni magnificamente indossati con la leggerezza dei saggi, servono poche parole per definire un orizzonte emotivo: quello che lui prova per Sciascia è un “lutto nevrotico” che gli impedisce, arrivati alla meta, di stare a proprio agio nell’appartamento in cui, a differenza delle tombe, il morto continua a vivere.

È la morte, infatti, la grande presenza di questo documentario, con il vecchio Scianna che ricorda lo sgomento del padre di fronte al suo desiderio di diventare fotografo, mestiere che nella Sicilia agricola del dopoguerra era delegato soprattutto ai ritratti, spesso destinati alle lapidi. Fotografare è immortalare, mentre il cinema ha a che fare con la memoria, riflette Scianna accanto al compaesano Giuseppe Tornatore, allievo e amico che ha tenuto a mente la lezione del fotografo per Baarìa: il loro breve incontro è un grande momento di cinema, un po’ perché al regista basta un aneddoto – oppure, perché no, un bozzetto – per costruire una mitologia e un po’ perché Scianna parla la stessa lingua non solo per motivi territoriali.

Il film ci restituisce l’avventura umana e professionale di un uomo talmente consapevole e padrone dei propri strumenti che non ha bisogno né di retorica né di troppe spiegazioni, un titano dell’intelligenza emotiva che confessa di aver vissuto (“Dovessi rinascere, e non ci tengo minimamente, vorrei avere il talento della letteratura” come se la sua fotografia non lo fosse, tra l’altro).

Sciascia sosteneva che lo stile dell’amico Scianna stesse nella “catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica”: è diffidando nella messinscena (espediente comunque usato dalla collaborazione con Dolce & Gabbana, che ebbero l’arditezza di affidargli una leggendaria campagna pubblicitaria con Marpessa Hennink) e affidandosi all’istante che si rivela il genio di questo artista che non può fare a meno della vita, degli amici (da quelli della giovinezza, figure archetipiche di tutta la carriera, agli illustri colleghi come Henri Cartier-Bresson), degli incontri (i ritratti di Jorge Luis Borges a cui, essendo cieco, illustrava i mostri di Villa Palagonia), delle ferite non rimarginate (il fantasma del padre, la convinzione che “ogni volta che torno a Bagheria mi chiedo perché me ne sono andato; poi mi chiedo perché non me ne sono andato prima”).

Personaggio fenomenale, vera ragione d’esistere del film, che si concede generosamente all’amico tra confidenze, aneddoti, rivelazioni, riflessioni. E viene da chiedersi, collegandosi all’incipit, quanto l’ombra di Scianna illumini effettivamente nell’opera di Andò.