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Il Falsario. Pietro Castellitto as Toni in Il Falsario. Cr. Lucia Iuorio/Netflix © 2025
“Una delle tante storie possibili”. In fin dei conti Il falsario cerca di essere “onesto” sin dalla dichiarazione in esergo, che mette da subito le cose in chiaro.
La vicenda – già raccontata nel libro Il falsario di Stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo dei giornalisti Nicola Biondo e Massimo Veneziani – è quella di Antonio Chichiarelli, detto Tony (con la y), mentre nel film diretto da Stefano Lodovichi – oggi in Grand Public alla XX Festa di Roma, dal 23 gennaio SOLAMENTE su Netflix – il personaggio interpretato (bene) da Pietro Castellitto è Toni (“con la i, mica come quel nano de Little Tony o Tony Renis”…), “artista” che insieme a due amici (un prete e un operaio, “sembra l’inizio di una barzelletta”) arriva a Roma a metà anni ’70.
La sua fame di vita, il destino e la Storia lo porteranno a diventare il più grande di tutti i falsari, nonché una figura centrale nei misteri più fitti del nostro Paese.
Targato Cattleya + Sandro Petraglia alla sceneggiatura (in collaborazione con Lorenzo Bagnatori), il film “falsamente ispirato” a questo personaggio capace di “dialogare” tanto con le BR quanto con la Banda della Magliana (Edoardo Pesce è Balbo, personaggio ispirato a Danilo Abbruciati), notoriamente vicina ai NAR, con i Servizi (Claudio Santamaria, “il sarto”) e con la Mafia (Fabrizio Ferracane, verosimilmente ispirato a Pippo Calò) si adopera a “ricostruire” un coté in grado di far coesistere tanto la vitalità di un periodo di riscoperte libertà con il sottotesto nerissimo di una Storia – di piombo e di oscuri intrallazzi tra Stato e criminalità – culminata con il sequestro e l’omicidio Moro.


Ecco, al nostro, il cui talento (di copiatore e di amatore) viene premiato dalla bella gallerista Dorotea (Giulia Michelini, brava pure lei, ispirata a Chiara Zossolo) verrà successivamente intestato il famigerato “comunicato n. 7” delle BR (poi rivelatosi appunto un falso), quello relativo al “suicidio” di Aldo Moro e successiva sceneggiata per ritrovarne il corpo nei fondali del Lago della Duchessa (sì, lo stesso che Toni nel film è impegnato a dipingere ad inizio racconto) e sempre il nostro è stato l’artefice di uno dei colpi più sensazionali andati a segno in Italia (“la rapina del secolo”), quello del 1984 alla Brink’s Securmark, che fruttò qualcosa come 35 miliardi di lire: Il falsario si sposta dunque dalle serate al Jackie O' all’atelier dove Toni realizza le sue magnifiche copie, alla luce del sole, esplorando poi quel sottobosco di relazioni, favori e lavori che quell’avventuriero guascone si ritrova – più o meno suo malgrado – a portare avanti.


D’altronde la domanda è sempre la stessa, “Che cosa sei disposto a fare per ottenere quello che desideri? Che cosa sei disposto a sacrificare?”: il film sacrifica “la verità” (e quel ribaltamento dell’agguato nel finale ne è la riprova, oltre all’inevitabile edulcorazione sulla reale natura di Toni: dov’è finita quella mai celata e dichiarata passione per le armi? Dove gli arresti dei primi anni ‘70?) in nome di una finzione che per una storia (e un personaggio) così è tutto sommato anche giustificata.
E lo fa cercando di aderire con discreta originalità agli stilemi del genere e del periodo, oscillando tra commedia criminale (la prima parte) e tragedia oscura (il momento in cui Toni, di fatto, capisce di essere finito in qualcosa di più grande di lui), tra zoom e effetto pellicola, riportando a galla (qui la puntata che la Rai gli dedicò nel programma Cose Nostre) l’affascinante ambiguità di un uomo che fu in qualche maniera determinante nell’andamento di certe pagine oscure del nostro paese.