È sempre affascinante osservare gli equilibrismi di un film che si muove sul filo della plausibilità, concetto che ha a che fare con una sorta di patto con lo spettatore piuttosto che con la verosimiglianza in senso lato. Presentato nel Grand Public della XX Festa del Cinema di Roma, & Sons fa parte di questa categoria: quello che sembrerebbe un film su una resa dei conti tra un padre larger than life e tre figli schiacciati da una tale presenza, un bel palinsesto da scannatoio familiare come nel grande teatro novecentesco, si rivela, improvvisamente, un dramma distopico.

Ora, tocca avvertire che si faranno degli spoiler, quindi, fate voi. C’è uno scrittore da Nobel molto amato dai lettori (Bill Nighy, un supremo gigione), che da almeno vent’anni vive in una maestosa villa di campagna, ascoltando dischi di jazz e galleggiando nei whisky. È più decrepito che vecchio, le foto sui suoi libri lo vedono ancora giovane e forte ma la realtà è quella che è, e a subirla sono la silenziosa governante (Anna Geislerová) e il figlio più piccolo che si chiama come lui (Andrew detto Andy), concepito in una relazione extraconiugale (Noah Jupe). La morte si avvicina, dunque lo scrittore chiama a rapporto i primi due figli, avuti dal lungo matrimonio interrotto a causa del tradimento: uno è un ex alcolista che vorrebbe fare lo sceneggiatore (Johnny Flynn), l’altro è un filmmaker che cerca una forma espressiva alla cognizione del lutto (George MacKay).

Il tema in superficie è chiaro: come ci si ritaglia uno spazio – perfino un’autonomia professionale – in un mondo pieno di gente che ti chiede conto di quel genio di tuo padre? Il tema vero è un altro: se è vero che in ogni fine c’è un inizio, allora è tempo che quei due figli sappiano la verità, e cioè che il terzogenito altri non è che il clone del padre (che, ovviamente, è all’oscuro di tutto). La spiegazione sembrerebbe attingere al puro complottismo, con la setta dei “palingenetisti” intenzionata a creare “un nuovo rinascimento” o “un nuovo illuminismo” clonando le migliori menti e i migliori talenti (“Pare ci sia un nuovo Shakespeare” sussurra Andrew). Lo shock lascia il posto alla certezza della pazzia paterna, finché entra in campo la moglie tradita, la madre “rimasta catatonica per un anno”, la donna che ha rinunciato a tutto per lui (Imelda Staunton, strepitosa): e se fosse tutto vero?

Partendo dal romanzo omonimo di David Gilbert, Pablo Trapero torna alla regia otto anni dopo Il segreto di una famiglia, quasi una libera variante femminile dello schema di & Sons e con cui condivide il mistero di una magione che contiene ricordi e reticenze, dolori e scompigli. La sua camera traballante sembra coincidere con quella usata da MacKay, concentrata su primi piani che esaltano la vulnerabilità dei personaggi, e la dimensione teatrale è indicata soprattutto dal posizionamento negli spazi (le stanze della villa sono vari set, dallo studio dello sregolato artista alla piscina piena di scatoloni, ma anche la casa attrezzata e moderna dell’ex moglie, in perfetta antitesi con la decadenza classica) e dalla precisa messinscena delle parole.

Merito della sceneggiatura di Sarah Polley, che sa intercettare i silenzi evitando gli spiegoni, ma anche del montaggio che dà un inaspettato ritmo alla storia (tre nomi accreditati, forse segno di qualche problema produttivo: Pablo Trapero, Gemma Cabello, Thom Smalley). Tutto molto professionale, benché la parte finale sia in bilico tra la soluzione più scolastica possibile e una facile e un po’ confusa ambiguità, ma è un oggetto bizzarro e godibile.