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Alpha di Julia Ducournau
Se cercavamo immagini capaci di scavare nella carne dell'immaginario, Julia Ducournau, quattro anni dopo la Palma d'Oro per Titane, torna a Cannes con Alpha e ci accontenta. I corpi che lentamente si fanno marmo, infettati da un virus sconosciuto, si imprimono nella memoria come presagi di un tempo pietrificato. Una trasformazione non esplosiva, ma minerale, silenziosa, terminale: l’umano che si spegne nella sua stessa materia. Come se l’eredità del figlio di titanio – non a caso nato alla fine di Titane – avesse lasciato una discendenza contaminante, un segno tossico inciso sulla pelle del mondo. Là dove il titanio rappresentava l’irruzione dell’ibrido e dell’anomalo, qui è la pietra a incarnare la paura della paralisi, dell’impossibilità del cambiamento.
Il tempo di Alpha è sdoppiato: il passato si colora degli acidi e dei metalli già visti in Titane, mentre il presente si muove in un grigio spento, attraversato da una polvere rossa che avanza e copre tutto. Non è sabbia, è il Maghreb che riaffiora nelle crepe della città francese. La natura invasiva di una terra esiliata, che si insinua tra le faglie della civiltà urbana e ne contamina l’apparenza. In questa materia che avanza – terra, sangue, pelle – si manifesta la paura del diverso, non solo come corpo estraneo, ma come corpo capace di trasmettere altro, infettare. È la stessa polvere che nelle opere di Tarkovskij (da Stalker a Nostalghia) e nei paesaggi memoriali di Anselm Kiefer simboleggia una natura che torna a sovrastare la storia, un passato che si fa cenere, detrito, eppure ancora viva memoria.
La storia è quella di Alpha, una ragazza di tredici anni (Mélissa Boros, ammirevole per come regge un ruolo così pesante), che torna da una festa con un tatuaggio artigianale sul braccio: una grande A, simbolo che riecheggia i numeri dei deportati nei lager, o i marchi infamanti di The Handmaid’s Tale. È la madre (Golshifteh Farahani), medico immigrato in Francia, a scoprire la ferita e a precipitare nel panico: la paura è che Alpha abbia contratto il virus pietrificante che anni prima ha trasformato suo fratello Amin (Tahar Rahim, struggente nella sua trasfigurazione fisica) in una statua di marmo. Da quel momento inizia una duplice attesa: quella del referto medico e quella del giudizio sociale.
A scuola Alpha viene isolata, bullizzata, percepita come "contagiata". Ha un ragazzo, Adrien (Louai El Amrousy), ma questi, come il resto della classe, si rivela ambiguo e opportunista. Il corpo dell’adolescente è lo snodo sensibile di tutte le paure: del sesso, della malattia, della razza, del sangue. Le scene si sdoppiano: il passato, acido e incandescente, si mescola al presente livido e freddo. E l’ossessione del contagio si fonde con quella della dipendenza: Amin, il fratello tossico, diventa un doppio simbolico della ragazzina. Entrambi sono dipendenti dalla madre – figura che il film evoca come una sorta di Madonna nera, icona dolente e ambivalente di accoglienza e impotenza. Entrambi, Alpha e Amin, reclamano un gesto: ma se quello di Alpha è un richiamo alla responsabilità e alla cura, quello di Amin è un grido di abbandono, di resa. La loro relazione si configura come un tragico specchio in cui la cura e il controllo condividono lo stesso volto materno.
Il film si alimenta della metafora virale della trasformazione in pietra, che richiama sia il trauma dell’AIDS anni Ottanta che quello più recente del COVID. Non è un caso che Alpha appaia accanto a film come The Plague e The Mysterious Gaze of the Flamingo nell’immaginario pandemico della selezione di Cannes. Ducournau non nomina mai direttamente il virus, ma costruisce una potente allegoria della stigmatizzazione: la paura del contatto, del fluido corporeo, del corpo altro. Il corpo immigrato come minaccia sanitaria e sessuale. E tra i tanti riferimenti, quello biblico alla moglie di Lot, che si volta verso Sodoma e diventa statua di sale, rafforza l’idea di una mitologia del corpo che paga per lo sguardo. Ma è soprattutto il personaggio di Golshifteh Farahani, a incarnare questa figura: è lei che, nel suo ostinato rimuginare sul passato, nella sua incapacità di lasciar andare il fratello, finisce per diventare simbolicamente pietra, bloccata nel suo stesso dolore. È lei la moglie di Lot, vittima della propria memoria, della disobbedienza interiore al fluire della vita, della fissità affettiva che paralizza.
La stratificazione della memoria visiva è il vero motore segreto del film, il dispositivo che ne determina la grammatica simbolica e la forza emotiva. Le statue in pietra di Ducournau affondano in una ricchezza iconografica che va dai Niobidi ellenistici alla Medusa ovidiana, da Michelangelo (con i suoi Prigioni che tentano di emergere dal marmo) alle installazioni iperrealistiche di Ron Mueck e alle carni martoriate di Berlinde De Bruyckere: corpi sospesi tra sofferenza e solidificazione, tra materia e memoria. Anche Człowiek z marmuru di Wajda – l’“uomo di marmo” del socialismo polacco – ritorna come figura di pietrificazione politica: il corpo usato come simbolo e poi abbandonato. L'ombra della Madonna nera, simbolo di una maternità dolente e inclusiva, aleggia su molte inquadrature, come possibile contro-icona alla pietrificazione del corpo femminile, figura di resistenza spirituale e accoglienza radicale.
Rispetto ai film precedenti, Alpha è più meditato e meno provocatorio, più silenziosamente apocalittico. Meno corpo che esplode, più corpo che cede. Un’opera cupa, sotterranea, che intende elaborare un lutto (il Covid? Le guerre? Il tramonto di una civiltà?). Ma anche un invito sottile, doloroso, alla resistenza umana. Non con l’eroismo, ma con la cura. La pietra può anche accogliere un abbraccio.
La scrittura visiva di Ducournau è densa, icastica, a tratti quasi sacrale. Gli spazi familiari si fanno alieni, la casa diventa minaccia, le strade teatro del rifiuto. E la simbologia esplode: la pelle marchiata, il sangue che può contaminare, la pietra che vince sul respiro. Le immagini sono potenti, fin quasi a saturare il racconto. Ma è proprio qui che affiorano alcuni dei limiti più evidenti del film: l'eccesso simbolico rischia di pietrificare i personaggi, e l’insistenza nel voler occultare le connessioni narrative, nel lasciare tutto nell’ellissi, nel non detto, rende l’ermetismo meno evocativo e più programmatico, talvolta frustrante. Se in Titane la deformazione narrativa serviva a generare una tensione mitica, qui l'opacità pare più decorativa che funzionale.
Farahani e Rahim – tra i più grandi attori francofoni della loro generazione – offrono comunque prove intense, estreme. Lei, madre razionale eppure disperata, incarna la paura di chi conosce la malattia troppo bene. Lui, corpo dolente e scarnificato, è l’icona vivente dell’autoannientamento. Ma il film è anche il ritratto di una figlia troppo giovane per sostenere il peso del mondo. Alpha lo dice chiaramente: “Sono troppo giovane!”. E il film sembra interamente costruito per condurre lo spettatore a quella consapevolezza.
Ducournau non offre chiavi facili. Non chiude con un abbraccio riparatore, ma con un gesto lacerante: lasciare andare. L’unico modo per salvarsi. Come? Rimanendo umani, con la sola cosa capace ancora di sacralizzare la nostra vita senza sacrificarla invano: misericordia. Mercy Me, come canta Nick Cave. Non una resa, ma una scelta. L’ultima forse che ci resta.