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Francesco Gheghi e Justin De Vivo in 40 secondi
Se ti distacchi dal gregge, nella migliore delle ipotesi emergi. Nella peggiore muori.
Dopo Il corpo, Vincenzo Alfieri porta sullo schermo il terrificante omicidio di Willy Monteiro Duarte, ventunenne di origini capoverdiane barbaramente ucciso nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, alle porte di Roma. Un pestaggio durato 40 secondi, come da titolo del libro di Federica Angeli, testo a cui si ispira il film targato Eagle Pictures (che dopo Il ragazzo dai pantaloni rosa ha il grande merito di portare sullo schermo un’altra vicenda che ha scosso l’opinione pubblica) per ricostruire le 24 ore precedenti quel drammatico evento.
Presentato in Concorso Progressive Cinema alla XX Festa del Cinema di Roma (sarà poi nelle sale dal 20 novembre), 40 secondi è una corale che di volta in volta sposta il centro dell’attenzione sui vari protagonisti di quella vicenda che, ricordiamo, dopo vari gradi di giudizio, si è conclusa con la condanna all’ergastolo per Marco Bianchi, 28 anni di reclusione per il fratello Gabriele, 23 anni e 21 anni per gli amici di questi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli.


Nel film per ognuno di loro viene utilizzato un altro nome, l’unico a mantenere quello reale è proprio Willy, interpretato dall’esordiente (e notevole) Justin De Vivo, che si integra in un cast di attori già affermati (Francesco Di Leva è il maresciallo, Sergio Rubini il padre della compagna di uno dei due fratelli, Maurizio Lombardi lo chef dove lavora Willy), promesse già mantenute (Francesco Gheghi e Enrico Borello, sono Maurizio e Cosimo, i due nella cerchia dei “gemelli”, chiamati così da quelle parti anche se divisi da 4 anni di differenza), attrici in rampa di lancio (Beatrice Puccilli, è Michelle, la ragazza che fuori dal locale notturno riceve un apprezzamento non gradito dall’ex compagno) e nuove scoperte, oltre al già citato De Vivo, poi il pugile Giordano Giansanti e Luca Petrini, scritturati per il ruolo dei due fratelli, Federico e Lorenzo.


È un amalgama che funziona, molto bene, per un film (scritto dal regista insieme a Giuseppe G. Stasi) che in prima battuta rischia la cafonaggine “di maniera” e il substrato di matrice “romanzocriminalesca / suburriana” ma che poco a poco riesce ad insinuarsi in un contesto, restituendolo in maniera anche molto credibile, frontalmente e senza troppi fronzoli, dove incontri casuali, rivalità e tensioni latenti finiscono per esplodere in maniera irrimediabile, trasformandosi in un viaggio attraverso la banalità del male, annidato nelle giornate tutte uguali dei ventenni che abitano i piccoli centri, per tentare di indagare la natura umana e i suoi condizionamenti.
Da una parte c’è chi, come Maurizio (Gheghi), brama l’accettazione altrui, dall’altra chi, come Cosimo (Borello), sfrutta la “linea diretta” con i gemelli (già noti alle forze dell’ordine, che li tengono d’occhio per questioni relative a spaccio, estorsioni e ricatti) per atteggiarsi e – proprio come poi accadrà quella notte – chiamarli per venire a “risolvere” quella rissa alle battute iniziali, dall’altra seguiamo la vicenda di Michelle (Puccilli), decisa a lasciare il suo ragazzo e le limitazioni della provincia per andare a studiare all’estero o chi, come Willy (De Vivo), ben integrato nella comunità, con la sua comitiva di amici e un lavoro come aiuto cuoco, sognando già da grande chef.
In 40 secondi – il lasso di tempo che è bastato a quei due balordi (e il film sa restituire anche per loro un “contesto”, quello di una situazione familiare tossica, che se di certo non giustifica può quantomeno aiutare a capire il perché di certi comportamenti), esperti di MMA, per scendere dall’auto, aggredire, pestare, uccidere Willy e risalire in macchina – ecco che esplode quel “valore terribile dell’inevitabilità”, come lo chiama Alfieri nelle note di regia.
La pietra tombale, il fatto eclatante, di cui già tanto si è parlato e sul quale la giustizia già si è espressa. Il film ha il notevole pregio, come già faceva il libro di Federica Angeli, di rintracciarne il prima, l’ipotetica brace (siamo anche nei mesi subito successivi al primo lockdown da Covid, non dimentichiamolo...) dalla quale, in maniera poi del tutto caotica e casuale, è divampato l’incendio.
E di farlo abbracciando un linguaggio che è sì destinato a coinvolgere il gradimento delle nuove generazioni, ma fortunatamente senza cedere al canonico appiattimento delle calcomanie da piattaforma.