Quando Quei bravi ragazzi esce nel 1990, il mafia movie ha già un monumento: Il Padrino. Coppola ha trasformato la criminalità organizzata in saga familiare, tragedia shakespeariana, opera. Scorsese sceglie l’altra strada: abbassa il punto di vista, torna al marciapiede, agli “operai del crimine”, al dialetto sporco della strada, alla quotidianità del racket.

Il film nasce dall’incontro con Wise Guy, il libro-inchiesta di Nicholas Pileggi su Henry Hill (Il delitto paga bene nell’edizione italiana). Non una fiction, ma un reportage criminale, fatto di episodi, aneddoti, dettagli di vita più che di psicologie solenni. Scorsese e Pileggi decidono, per loro stessa ammissione, di costruire la sceneggiatura come un mosaico di frammenti scelti e montati “a blocchi”, rinunciando alla struttura classica e usando narrazione e montaggio come un flusso ininterrotto di sensazioni più che come una trama tradizionale.

Mr Scorsese @AppleTv+
Mr Scorsese @AppleTv+

Mr Scorsese @AppleTv+

Nella celebre intervista raccolta da Ian Christie e David Thompson (Scorsese secondo Scorsese, Ubulibri 2003), il regista ha spiegato che, di fronte al modello “soverchiante” del Padrino, la sua ambizione era mostrare “com’era davvero” per quelli del quartiere: non un’epica dinastica, ma “un tizio all’angolo che racconta com’è andata”. Quei bravi ragazzi è, da questo punto di vista, il film che porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Mean Streets: la criminalità non è un’anomalia del sistema, ma l’atmosfera, l’habitat, la lingua madre.

La seduzione del crimine: stile e messa in scena

Scorsese ha spesso definito Quei bravi ragazzi come un film fatto per “partire come un colpo di pistola” e continuare come un trailer di due ore e mezza: un bombardamento di immagini, musica, movimenti di camera, voce off.

La doppia voce narrante (Henry e, a un certo punto, Karen) è uno degli elementi più innovativi. Non è un semplice commento: è il principio strutturante del film. Scorsese guarda esplicitamente alla Nouvelle Vague – Jules e Jim in particolare – per il modo in cui la narrazione verbale può spezzare, accelerare, ironizzare sulle immagini.

Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

La collaborazione con Thelma Schoonmaker spinge il montaggio verso una forma quasi musicale: scene brevissime, accumulo di dettagli, freeze frame che “congelano” momenti-chiave della biografia di Henry, rendendo visibile il modo in cui certi istanti traumatici si imprimono nella memoria. È un cinema che satura la percezione per restituire allo spettatore la stessa vertigine vissuta dai personaggi: la curva euforica dell’ascesa, la spirale ansiogena della caduta.

Il piano-sequenza del Copacabana

Il celeberrimo piano-sequenza in steadicam che segue Henry e Karen dall’ingresso di servizio del Copacabana fino al tavolo “materializzato” in prima fila è diventato uno dei piani più famosi della storia del cinema.

Il produttore Irwin Winkler ha raccontato che Scorsese voleva, in un solo movimento, mostrare due cose: Henry che seduce Karen e il film che seduce lo spettatore, facendo percepire il mondo dei “wise guys” come irresistibilmente glamour e privilegiato. Quel piano-sequenza – con il luccicare di luci e di mance, i sorrisi di compiacenza, il tavolino che vola sopra le teste – restituisce la forza di attrazione di un mondo di agi che risucchia Karen dentro quel mondo, più ancora di qualsiasi spiegazione.

Lorraine Bracco, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
Lorraine Bracco, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Lorraine Bracco, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Non è un caso che molta critica abbia paragonato questo cinema a un caleidoscopio: il mondo è visto come una “gimkana di colori, musiche, grida, dadi, dita spezzate, omicidi, gioielli, insegne al neon”, come ha scritto Emanuela Martini. L’esperienza dello spettatore è quella di un’immersione senza respiro in un universo che sembra non conoscere alternative alla propria logica.

Musica, pop culture, violenza

La colonna sonora – un florilegio di brani rock e pop che attraversano tre decenni, da “Then He Kissed Me” delle Crystals (il celebre piano-sequenza del Copacabana) a “Layla (Piano Exit)” dei Derek and the Dominos (il montaggio dei cadaveri), passando per “Sunshine of Your Love” dei Cream (Jimmy che medita il prossimo omicidio) e “Jump into the Fire” di Harry Nilsson (la notte della paranoia cocainica di Henry) – funziona come metronomo emotivo e cronologia implicita. Il supervisore alle musiche Chris Brooks ha descritto il lavoro preparatorio come una vera “partitura” di canzoni appoggiate sui movimenti di macchina e sui tagli di montaggio.

Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
 

Il montaggio della carneficina post-rapina Lufthansa sui versi della coda pianistica di Layla è l’esempio più noto: un’elegia rock che accompagna la visione dei cadaveri dei complici, trasformando la resa dei conti in macabro balletto. Altrove, la scelta dei brani dialoga con le tonalità affettive delle scene: l’innamoramento, la complicità maschile, la paranoia, il crollo. È come se il film attraversasse l’educazione sentimental-musicale di una generazione, innestandola nel corpo del racconto criminale.

Una “tribù” mafiosa di matrice cattolica

Quei bravi ragazzi è anche un film sulla comunità – o meglio, sulla tribù. La cosca è, per Henry, l’unica vera famiglia; Paulie Cicero è figura di pater familias che esige decima e obbedienza in cambio di protezione. Paulie e l’organizzazione sono, nelle parole di Henry, “una specie di polizia dei bravi ragazzi”, l’istituzione a cui si rivolge chi “non può chiamare la polizia”.

In questo microcosmo, le convenzioni e le apparenze contano quanto – se non più – che nella buona società de L’età dell’innocenza: Paulie non tollera che Henry lasci la moglie (“non siamo mica animali!”) ma nello stesso tempo ordina di bruciare il ristorante dell’amico Sonny Bunz quando non può più pagare.

Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Joe Pesci, Robert De Niro, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
 

Il mondo dei goodfellas funziona come un regno totalmente mondano, dove i codici religiosi (fedeltà, peccato, castigo) sono rovesciati in chiave tribale e utilitaristica. I personaggi vivono in uno stato di perenne tentazione materialistica: comfort, denaro contante, oggetti di lusso, potere immediato sostituiscono qualunque idea di redenzione o trascendenza. La “colpa” non è mai morale, ma operativa: non ti puniscono perché hai ucciso qualcuno, ma perché hai sbagliato a gestire il rischio (Tommy che ammazza Billy Batts per un insulto, Jimmy che elimina uno a uno i complici della rapina Lufthansa per paranoica avidità).

In questa prospettiva, Quei bravi ragazzi prosegue il discorso iniziato con Mean Streets: il conflitto fra carne e spirito, peccato e possibile salvezza, ma spostando sempre di più l’ago della bilancia sul versante dell’osservazione sociologica. Se nei film giovanili l’angoscia era “dentro” i personaggi, negli anni Novanta – ha osservato, tra gli altri, Roberto Lasagna (Martin Scorsese, Gremese 2003) – Scorsese sposta l’attenzione sulla “macchina sociale” che modella e schiaccia le biografie individuali.

Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto
Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Ray Liotta in Quei bravi ragazzi (1990) - @Webphoto

Henry Hill non è travolto da un tormento spirituale: è espulso dal paradiso della cosca e costretto all’inferno della normalità suburbana, condannato a essere “uno qualunque”, uno schnook. Il castigo è la vita comune, la perdita di quell’eccezionalità distorta che la tribù mafiosa gli aveva offerto.

Il mafia movie dopo Quei bravi ragazzi

La forza di Quei bravi ragazzi sta anche nel suo modo di rifondare il mafia movie.
Se Il Padrino racconta la mafia come aristocrazia del crimine, Quei bravi ragazzi mostra il lavoro sporco: camion da ripulire, bar da spremere, piccole truffe, regole non scritte (“Never rat on your friends; and always keep your mouth shut”). Il film insiste sul fare quotidiano dei gangster: i colpi, le spartizioni, i rituali domestici (le salsicce in carcere, la suocera che mette in tavola, la madre di Tommy che offre la cena ai ragazzi di ritorno da un omicidio).

Diversi studiosi angloamericani hanno visto in Goodfellas il film che restituisce al mob movie una dimensione di realismo feroce, dopo la “sublimazione” coppoliana. Atteggiamento quasi documentaristico nella descrizione delle pratiche criminali, assenza di qualsiasi nostalgia per il codice d’onore tradizionale, nessun Don Vito malinconico, nessuna metafisica del potere, ma una schiera di piccoli e medi professionisti del crimine, spesso grotteschi, sempre pronti a tradirsi.

L’eredità: da I Soprano a Tarantino

L’influenza di Quei bravi ragazzi su I Soprano è stata riconosciuta apertamente: David Chase ha ammesso di avere avuto il film “in testa” mentre immaginava il tono e l’umore della serie, e ha riutilizzato numerosi attori scorsesiani (Lorraine Bracco, Michael Imperioli, Frank Vincent, Tony Sirico). La serie porta in televisione proprio quell’impasto di violenza, famiglia, umorismo nero e quotidianità già pienamente dispiegato nel film, spostando la prospettiva dal soldato alla figura del boss in analisi, ma restando fedele a quell’idea di mafia come tessuto connettivo della società americana.

James Gandolfini ne I soprano - @Webphoto
James Gandolfini ne I soprano - @Webphoto

James Gandolfini ne I soprano - @Webphoto

Sul piano stilistico, il mix di voice over, freeze frame, montaggio musicale e ironia nerissima di Quei bravi ragazzi ha fatto da modello a una lunga serie di film crime degli anni Novanta e Duemila – da Le iene e Pulp Fiction a Blow, American Hustle, fino alla stessa autocitazione di Scorsese in The Wolf of Wall Street, dove il lessico della finanza speculativa viene trattato come un’ulteriore declinazione del crimine organizzato.

Attori e destini: cosa è successo “dopo”

Per comprenderne oggi la ri-uscita in sala (dal 17 al 19 novembre per celebrare i 35 anni), Quei bravi ragazzi va ricordato anche come una straordinaria palestra di attori.

Ray Liotta trova in Henry Hill la consacrazione definitiva: la sua miscela di fascino e instabilità regge sia la dimensione seduttiva sia quella paranoica. Dopo Quei bravi ragazzi alterna cinema e tv, vince un Emmy e continua a lavorare fino alla morte, nel 2022, comparendo in diversi titoli postumi.

Robert De Niro - @Webphoto
Robert De Niro - @Webphoto

Robert De Niro - @Webphoto

Robert De Niro, volto-simbolo del cinema scorsesiano, incarna in Jimmy Conway un personaggio glaciale, dominato dalla paranoia e dall’avidità. Il ruolo rappresenta il lato calcolatore del sistema mafioso, in contrasto con la furia psicotica di Pesci. De Niro proseguirà la collaborazione con Scorsese fino alla malinconica vecchiaia criminale di The Irishman, chiudendo idealmente il cerchio con l’Henry Hill anziano e smarrito.

Joe Pesci, con la sua performance violenta, imprevedibile, spesso improvvisata in prove che Scorsese lasciava volutamente libere, ottiene l’Oscar come miglior attore non protagonista nel 1991, con una delle più brevi frasi di ringraziamento della storia (“It was my privilege. Thank you”). Dopo il film alterna ruoli iconici (Mamma, ho perso l’aereo, Mio cugino Vincenzo, Casinò) a lunghi periodi di semi-ritiro, tornando più volte sotto la direzione di Scorsese fino a The Irishman.

Lorraine Bracco, nominata all’Oscar per il ruolo di Karen, diventerà poi uno dei volti fondamentali de I Soprano nel ruolo della psichiatra di Tony, ponte ideale tra la stagione cinematografica di Scorsese e la rivoluzione seriale.
Attorno a loro, una costellazione di caratteristi destinati a una lunga militanza nel mafia movie: Paul Sorvino, decano imperturbabile; Frank Vincent, destinato a morire più volte per mano di Pesci; Michael Imperioli, futuro Christopher Moltisanti; un giovane Samuel L. Jackson alle soglie dell’esplosione tarantiniana.
Guardare oggi Quei bravi ragazzi significa anche riconoscere, in un’unica costellazione, volti e corpi che hanno ridisegnato l’immaginario gangster dagli anni Novanta a oggi.

Premi e canonizzazione

Alla sua uscita, Quei bravi ragazzi incassa sei nomination agli Oscar (film, regia, sceneggiatura non originale, montaggio, attore non protagonista per Pesci, attrice non protagonista per Bracco) e porta a casa la statuetta con Joe Pesci, che liquida la cerimonia con una delle frasi di ringraziamento più fulminee di sempre: “It was my privilege. Thank you”. In Europa il riconoscimento è ancora più netto: alla Mostra di Venezia 1990 si aggiudica il Leone d’argento per la regia (Leone d’oro a Rosencrantz & Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard), il premio del pubblico e il “Bastone bianco” di Filmcritica; ai BAFTA 1991 fa incetta di riconoscimenti – miglior film, regia, sceneggiatura adattata, costumi e montaggio – mentre la critica anglofona lo ribattezza “the fastest, sharpest 2½-hour ride in recent film history”.

Joe Pesci - @Webphoto
Joe Pesci - @Webphoto

Joe Pesci - @Webphoto

Da allora la sua posizione nel canone non fa che consolidarsi: 6° posto nella lista dei 500 Greatest Movies of All Time di Empire, n. 1 assoluto per Total Film, 10° nella top 100 di Channel 4, presenza fissa nelle classifiche AFI (100 Years…100 Movies), nel sondaggio BBC Culture sui più grandi film americani e nelle poll decennali di Sight & Sound. Nel frattempo Tommy DeVito – il ghigno, la risata, la violenza a scatti di Joe Pesci – entra a sua volta nel pantheon dei personaggi più citati, imitati e temuti del cinema contemporaneo.

Quel bravo ragazzo di Scorsese

Nel quadro complessivo del cinema scorsesiano, Quei bravi ragazzi è un film-cerniera. Porta a piena maturità il discorso sulle “tribù” sociali iniziato con Mean Streets e proseguito con Re per una notte; anticipa, insieme a Casinò, il racconto dei “regni di questo mondo”: Las Vegas, Wall Street, l’industria dello spettacolo, luoghi dove il peccato non è più categoria religiosa ma meccanismo sistemico; si colloca a metà strada fra il cinema ancora “mistico” di Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo e il cinema più meditabondo e museale del terzo millennio (Shutter Island, Hugo Cabret, The Irishman).

Rivederlo oggi, nella luce grande della sala, significa ritrovare intatta la sua potenza sensoriale: la grana della pellicola, l’aggressività del montaggio e della colonna sonora, la fisicità degli attori, la precisione quasi coreografica dei movimenti di macchina. Ma significa anche misurare quanto quel mondo – di clan, codici, appartenenze – parli ancora dell’oggi: della fascinazione per il successo rapido, della normalizzazione della violenza, della continua tentazione di “sentirsi qualcuno” in un sistema che ti chiede solo di consumare e obbedire.

Per soli tre giorni a novembre, nel trentacinquesimo anniversario, Quei bravi ragazzi torna in sala non soltanto come “classico restaurato”, ma come film ancora vivo, nervoso, scandalosamente contemporaneo: il modo migliore per ricordare che, per Martin Scorsese, vivere e filmare sono sempre stati la stessa cosa.