Stasera calerà il sipario sulla 78ª edizione del Festival di Cannes e la giuria presieduta da Juliette Binoche svelerà il palmarès. Un momento atteso, politicissimo, sottilmente coreografico. E, come ogni anno, carico di incognite.

Ma qualcosa, questa volta, sembra emergere con più chiarezza del solito. Un titolo, un regista, una presenza. Jafar Panahi, in concorso con A Simple Accident, è il nome su cui tutti scommettono. Perché il film — girato clandestinamente in Iran, femminista, teso, claustrofobico — è potente. Perché lui, simbolo di resistenza culturale, è per la prima volta presente a Cannes dopo anni di detenzione e divieti. E perché la giuria — cinque donne su nove, tra cui la militante Leïla Slimani, la regista Payal Kapadia e il documentarista Dieudo Hamadi — difficilmente resterà insensibile a un’opera che incarna il rapporto tra cinema, libertà e corpo femminile.

A Simple Accident è anche uno dei film più apprezzati dalla critica, con riscontri solidi sulla stampa internazionale e nella tradizionale Jury Grid di Screen International. Ma qui, più dei numeri, contano i temi: silenzio, repressione, intimità, resistenza. Tutto ciò che ha attraversato — direttamente o in filigrana — la selezione di quest’anno.

IL RUOLO DELLE DONNE

Da non sottovalutare, in chiave statistica, è il peso crescente delle donne nelle giurie di Cannes. Dal 2018, quando Cate Blanchett inaugurò la prima commissione con maggioranza femminile (5 su 9), il festival ha consolidato un trend:

2019: Alejandro G. Iñárritu (4 donne / 5 uomini)

2021: Spike Lee (5/4)

2023: Ruben Östlund (5/4)

2025: Juliette Binoche (5/4)

E i numeri dicono che la parità incide sul palmarès: Titane di Julia Ducournau (2021) è stata la prima Palma d’Oro a una regista donna dopo 28 anni; Anatomia di una caduta di Justine Triet (2023) ha bissato il risultato. In entrambi i casi, le giurie erano a maggioranza femminile. Con Binoche — attrice da sempre attenta ai ruoli e ai corpi femminili — alla presidenza e un plotone di colleghe (Berry, Rohrwacher) e autrici militanti (Kapadia, Slimani) al tavolo, è realistico aspettarsi un palmarès che continui a premiare sguardi e interpretazioni femminili forti, anche se la Palma dovesse andare a un regista uomo come Panahi: le sue protagoniste e la sua prospettiva al femminile parlano direttamente alla sensibilità di questa giuria.

LA GEOGRAFIA E LE POCHE CHANCES PER L’ITALIA

La mappa umana seduta stasera al tavolo della giuria copre quattro continenti: l’asse europeo è forte – due francesi (Binoche e Slimani) più l’italiana Alba Rohrwacher –, ma a riequilibrare il baricentro ci sono l’indiano Payal Kapadia, il congolese Dieudo Hamadi, il messicano Carlos Reygadas, due statunitensi (Halle Berry e Jeremy Strong) e il sud-coreano Hong Sang-soo. In pratica, ogni latitudine sensibile al cinema d’autore ha almeno un rappresentante; ed è facile aspettarsi un palmarès che rifletterà quella stessa pluralità: Iran con Panahi, Ucraina con Loznitsa, il Mediterraneo ispano-maghrebino di Laxe, il Nordamerica raffinato di Linklater, la Francia di Léa Drucker, la Scandinavia di Trier, il Brasile di Wagner Moura. Una dimostrazione che il verdetto non sarà mai monocolore.

Dentro questo gioco di bilanciamenti si capisce perché l’Italia – presente in concorso con Fuori di Mario Martone – difficilmente entrerà nel medagliere. Primo: l’accoglienza critica è stata tiepida, lontana dai picchi d’entusiasmo registrati per Panahi o Loznitsa. Secondo: in un gruppo che decide per consenso, la sola voce “di casa” di Rohrwacher non basta a spostare l’ago della bilancia; serve un afflato collettivo che qui non si è acceso. Terzo: il tema della memoria letteraria e femminista di Martone si trova a competere con film-memoria di ben altra tensione politica. E, infine, l’equilibrio geografico è già garantito da titoli che coprono Iran, Ucraina, Nord e Sud America, Mediterraneo e Scandinavia: l’Italia, quest’anno, non è indispensabile al mosaico. In altre parole, un passaporto condiviso non basta – servono entusiasmo critico, sponde tematiche e, soprattutto, quella scintilla che a Cannes decide tutto.

GLI SFIDANTI

Non solo Panahi. Attenzione ai rivali. Uno su tutti: Sergei Loznitsa con Two Prosecutors, processo stalinista in formato 4:3, girato con camera fissa e rigore implacabile. Se la giuria volesse premiare la precisione morale e formale, questo è il titolo ideale per il Grand Prix – Speciale della Giuria, pensato proprio per le opere che mostrano spirito di ricerca.

A completare il podio delle previsioni, Óliver Laxe con Sirāt: trance spirituale che fonde Islam e techno, rituale e fisicità. Un film sensoriale, divisivo, che potrebbe meritarsi il Premio della Giuria, spesso riservato alle esperienze più estreme e innovative.

GLI INTERPRETI

Sul fronte attoriale, è sfida aperta. Per il Prix d’interprétation masculine, i favoriti sono tre:

Josh O’Connor in The Mastermind, ladro d’arte fragile e spaesato, perfetto per Jeremy Strong e per l’estetica anti-eroica del 2025.

Stellan Skarsgård, padre stanco in Sentimental Value, film calibrato e doloroso.

Wagner Moura in O Agente Secreto, protagonista enigmatico di un noir politico a Recife, capace di conquistare per carisma.

Per il Prix d’interprétation féminine, Léa Drucker è la favorita con Dossier 137: donna tra giustizia e oblio, sobrietà e colpa. Francese, misurata, potente. Una performance che parla alla giuria nel linguaggio che ama.

REGIA, SCRITTURA, E UN’IPOTESI SPECIALE

Il Prix de la mise en scène potrebbe andare a Richard Linklater per Nouvelle Vague: musical cinefilo sofisticato, ironico e tecnicamente brillante. 

Per il Prix du scénario, il nome da tenere d’occhio è Joachim Trier con Sentimental Value: racconto familiare scritto con eleganza e precisione, molto amato da Slimani e co.

Infine, possibile premio extra: Sound of Falling di Mascha Schilinski, horror gotico femminista, esordio sorprendente. La giuria potrebbe assegnarle un riconoscimento non ufficiale.

E LE ETICHETTE?

Dietro i film, i player. Non è un dettaglio da poco che il Concorso 2025 parli fluentemente “indie-prestige”.

Neon, vincitrice seriale (cinque Palme negli ultimi sei anni), è di nuovo presente e attiva. Piazza due pedine pesanti – l’estremo Alpha di Julia Ducournau e l’intimista Sentimental Value di Joachim Trier (di cui gestisce i diritti USA). La casa di Tom Quinn conferma così la sua presa sulla Croisette dopo cinque Palme in sei anni. A24 gioca una sola carta, ma a firma Ari Aster: Eddington è il classico “one-and-done” ad alto rischio/ad alto rendimento che il marchio new-yorkese ama portare in gara.

Mubi continua l’ascesa da piattaforma a major cinefila con tre titoli: il romance queer in costume The History of Sound (Nord America), il dramma fabbricato al millimetro di Kelly Reichardt The Mastermind (acquisito per tutto il mondo anglofono e l’America Latina) e, in coabitazione con Neon, Sentimental Value (UK, Irlanda, LatAm, India, Turchia, Germania).

Tradotto: sei film su ventidue – quasi un terzo del Concorso – portano il timbro degli “indie-powerhouses” che dominano il mercato d’autore. Qualunque scelta faccia la giuria, i cataloghi di Neon, A24 e Mubi si apprestano a capitalizzare l’onda lunga dei premi.

E dietro queste punte di diamante statunitensi c’è la retroguardia d’acciaio dei grandi sales europei: The Match Factory — storico ponte Colonia-Berlino ormai integrato nel gruppo MUBI — schiera due titoli che potrebbero finire nel palmarès: l’estasi sufi-techno di Sirāt di Óliver Laxe e il rigorosissimo Two Prosecutors di Sergei Loznitsa. Se uno dei due dovesse salire sul podio, il marchio tedesco si confermerebbe il principale esportatore mondiale di “arthouse di ricerca”. Goodfellas (l’ex Wild Bunch International) punta sul fronte latino-mediterraneo: rappresenta Kleber Mendonça Filho con O Agente Secreto e Carla Simón con Romería. Due film molto diversi — un noir politico brasiliano e un racconto di formazione rurale — ma accomunati da quell’intensità autoriale che il catalogo parigino coltiva da vent’anni.

In cifre: Match Factory + Goodfellas = quattro titoli in Concorso. Sommando i sei delle triade Neon-A24-Mubi, oltre il 40 % della selezione porta la firma di cinque società che, tra vendite e co-produzioni, gestiscono ormai la rotta principale del cinema d’autore globale. Qualunque sia il verdetto di stasera, i telefoni di Colonia, Parigi, New York e Londra inizieranno a squillare ancora prima che la Palma tocchi il palcoscenico.

Se la Palma finisse davvero a A Simple Accident, unico titolo fuori dai loro radar, sarebbe un promemoria opportuno: possono comprare (quasi) tutto, ma non l’irripetibilità di un gesto politico firmato Jafar Panahi.

IL PALMARÈS SECONDO NOI

Palma d’Oro

A Simple Accident – Jafar Panahi

Il film e l’autore che incarnano il senso profondo di Cannes: visione, coraggio, presenza.

Grand Prix – Speciale della Giuria

Two Prosecutors – Sergei Loznitsa

Rigoroso, teso, civile. Un cinema che sa guardare indietro per dire il presente.

Prix de la mise en scène

Richard Linklater – Nouvelle Vague

Memoir cinefilo preciso e divertente. Un omaggio che è anche una lezione di stile.

Prix du scénario

Joachim Trier – Sentimental Value

Padri e figlie, colpa e perdono. Una scrittura affilata, toccante. Bergmaniana.

Prix d’interprétation masculine

Josh O’Connor – The Mastermind

Con Wagner Moura e Stellan Skarsgård a tallonarlo da vicino.

Prix d’interprétation féminine

Léa Drucker – Dossier 137

Una donna, un dilemma morale, una performance in punta di silenzio.

Premio della Giuria

Sirāt – Óliver Laxe

Rituale, sensoriale, mistico. Un viaggio cinematografico fuori dal tempo.

Premio speciale (facoltativo)
Sound of Falling – Mascha Schilinski

Il debutto più folgorante. Un horror che è anche visione politica.

Sarà davvero questo il verdetto? Difficile dirlo. Cannes ama deviare all’ultimo, sorprendere, ribaltare. Ma se dovessimo scegliere oggi, Panahi sul palco con la Palma tra le mani è l’immagine che meglio rappresenterebbe questa edizione.

E Cannes, quando può scrivere la storia, lo fa.