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Ali Ahmadzade
La Palma d’Oro conquistata da Jafar Panahi per Un semplice incidente – riconoscimento che gli ha permesso di diventare il secondo regista nella storia dopo Michelangelo Antonioni ad aver vinto il primo premio ai quattro principali festival europei: Cannes, Venezia, Berlino, Locarno – non è solo l’ulteriore consacrazione di un autore tra i più potenti del nostro tempo, ma anche l’occasione per ricordarci quanto il cinema possa essere un atto di resistenza. “Ciò che conta è il nostro paese e la sua libertà, che nessuno osi dirci come vestirci, cosa fare, come comportarci” ha detto il regista iraniano, presente alla premiazione dopo essere stato detenuto per due volte e obbligato per quindici anni a non lasciare il paese.
Oggi, fare cinema libero e indipendente in un Paese come l’Iran è quasi impossibile, perlomeno nei limiti concessi dal regime islamico. Ricordiamo Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, autori di Ballad of a White Cow e Il mio giardino persiano, i cui passaporti sono stati confiscati così da impedirne l’espatrio, e Mohammad Rasoulof, Orso d’Oro per Il male non esiste e premiato a Cannes per Il seme del fico sacro, fuggito dopo essere stato condannato a otto anni di prigione, alla fustigazione e alla confisca dei beni, oggi riparato in Germania. Generalmente, questi film, girati in clandestinità per aggirare la censura, ben accolti dalle platee internazionali e del tutto boicottati in patria, mettono in scena la realtà con una sconcertante sapienza linguistica, attraverso strutture allegoriche che condannano il sistema repressivo.
Sulle orme del venerato maestro Panahi, ce n’è uno nascente e altrettanto dissidente che crede nel valore politico dell’atto del filmare. Si chiama Ali Ahmadzadeh, è nato a Teheran nel 1986 e, dopo aver abbandonato gli studi di architettura, si è diplomato alla Neinava Music University. Come Panahi, anche Ahmadzadeh ha vinto un Pardo d’Oro a Locarno con Buonanotte a Teheran – Critical Zone, sprofondamento nei bassifondi della capitale, presentato nel 2023 e subito osteggiato dalle autorità iraniane (oggi il film è disponibile sulla piattaforma IWonderfull Prime Video Channels). È la terza regia di Ahmadzadeh, che ha debuttato nel 2013 a ventisette anni con Mehmouniye Kami (Kami’s Party), un esordio che ne mette subito in evidenza la volontà di inquadrare i tumulti e le tensioni della gioventù ribelle in conflitto con la teocrazia, guardando a Michael Haneke e Asghar Farhadi.


Teheran come spazio della mente
È più compiuto ed efficace il secondo lungometraggio del regista, Madar-e ghalb atomi (Atomic Heart), presentato al Forum di Berlino nel 2015 e circolato in Iran solo dopo i pesanti interventi censori del regime. Ambientato oltre la mezzanotte, subito dopo una festa in casa (l’incipit nell’ascensore, con la porta automatica che prova a chiudersi invano, è una dichiarazione d’intenti), è il racconto notturno di due ragazze che, passeggiando per strada (le stesse location di Taxi Teheran di Panahi, che nello stesso 2015 vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale), incontrano un amico, deciso a lasciare il Paese, e causano involontariamente un incidente (It Was Just an Accident…).
Le cose precipitano quando un estraneo dice loro di aver risolto la questione pagando l’altro conducente: il film, fino a quel momento caratterizzato da un trasparente realismo urbano, assume un’inquietante dimensione metafisica, quasi entrassimo in uno spazio mentale dove i giovani sono messi alla prova da una figura dai tratti demoniaci, emblema di un regime pervasivo e minaccioso. Per Ahmadzadeh, ben assistito dalla fotografia di Ashkan Ashkani, è una scelta di campo: lo slittamento onirico è uno strumento per confrontarsi con la realtà, la generazione che crede nei valori democratici dell’accoglienza e della concordia non può che essere ostacolata da quella società legata al fondamentalismo, al totalitarismo e all’intolleranza.
Attenzionato dal regime, Ahmadzadeh riesce a concludere un altro film solo otto anni dopo, ovviamente senza autorizzazioni, con mezzi limitati e attori non professionisti. Buonanotte a Teheran – Critical Zone è un’altra odissea notturna (il buio come rifugio e metafora), con uno spacciatore che vaga in auto per le strade di Teheran (alla fine tutti questi giri immensi ci riportano in qualche modo sempre al padre nobile, ad Abbas Kiarostami e a Il sapore della ciliegia) per raggiungere i consumatori, figure sommerse in una città che assomiglia a una landa desolata. A fargli compagnia c’è solo la voce impersonale del GPS e i vari clienti coi quali spingere la notte più in là.


Atomic Heart Mother
ai margini del regime: Critical Zone
Attraverso la parabola contraddittoria eppure pietosa se non caritatevole di un protagonista che è un ripensamento di Taxi Driver (c’è un dialogo a distanza con l’aspetto trascendente di Paul Schrader), una sorta di controcanto acido al Seme del fico sacro: se Rasoulof concettualizza le proteste giovanili e popolari contro il sistema oppressivo e omicida (il caso di Mahsa Amini) nel teatro dell’orrore di una tragedia familiare, Ahmadzadeh produce immagini più stratificate e provocatorie a testimoniare il dolore di chi sta ai margini del sistema. Lo spacciatore (altra evocazione schraderiana...), infatti, non si limita a vendere la droga, ma si preoccupa di entrare in empatia con i suoi clienti, provvedendo ad offrire loro, pur nel modo meno ortodosso e più controverso, quel conforto negato dal mondo.
Nel film c’è anche spazio per il sesso, senza morbosità gratuita ma come effetto di una riflessione militante contro i divieti del regime teocratico: nel Paese in cui la donna è oggettificata dal patriarcato, il sesso diventa argomento di lotta contro il governo ed emancipazione di genere. Ma ciò che affascina davvero in questo film libero e combattente è il lavoro sulle forme: i corpi che cercano il contatto e trovano la consistenza delle ombre, una sensorialità che si confronta con l’incomunicabilità, le voci che si perdono nelle gallerie e quelle artificiali che imprigionano nelle gabbie mentali e non solo.