Un uomo contro. Nel 2010 condannato a sei anni di prigione per propaganda avversa al regime, Jafar Panahi non sa, non vuole esimersi dal filmare la realtà del suo paese, l’Iran. Rilasciato su cauzione nel febbraio 2023, con il nuovo film, Un Simple Accident, in Concorso al 78° Festival di Cannes corre due sensibili rischi: attirare l'ira di Teheran e ampliare il suo palmares, dopo il Leone d'Oro al Festival di Venezia nel 2000 per The Circle e l'Orso d'Oro a Berlino nel 2015 per Taxi Teheran.

Sulla Croisette è di casa, regime permettendo: ha vinto la Caméra d'Or nel 1995 con l’opera prima Il palloncino bianco, ha ricevuto il premio della giuria a Un Certain Regard per Oro rosso nel 2003, poi il premio per la migliore sceneggiatura per Tre volti nel 2018, mentre nominato giurato del Concorso nel 2010 non poté partecipare, perché recluso nel carcere di Évin.

Il film è stato girato senza autorizzazione, le attrici non indossavano l'obbligatorio hijab, il poeta Vahid Moshaberi, già apparso in Gli orsi non esistono, interpreta il ruolo principale al fianco di Ebrahim Azizi, Majid Panahi e Mariam Afshari, ma com’è A Simple Accident, “Un semplice incidente”?

Film importante, importante più che del tutto riuscito, giacché soffre della stessa pesantezza di quel che racconta, quasi ineluttabilmente, ovvero l’impetuosa e impietosa persecuzione di un aguzzino, o presunto tale, da parte delle proprie vittime.

Fa il paio con l'ultimo di Mohammad Rasoulof, Il seme del fico sacro, ma A Simple Accident va oltre, nel decrittare a brutto muso l'Iran qui e ora, che non è terra pacificata né redimibile. Coraggioso fino alla temerarietà, Panahi osa prendere in ostaggio il regime degli ayatollah e processarlo addirittura sommariamente, arreso all'evidenza dell'occhio per occhio, dente per dente, sennonché il colpo di scena finale rinfocola la prevalenza del Sistema, amputato ma ancora in piedi e pronto a colpire.

Tra il pamphlet politico, il dramma da minivan, l'allegoria sociologica e perfino antropica, è lo showdown di un luogo, di un tempo e un'ideologia, laddove il regista si sporca le mani, la camera e la coscienza perché nella notte tutte le vacche sono nere, ma nulla è accidentale. (Non) si fanno prigionieri, tutti sono reduci, e per una nuova nascita c'è una stessa fine: già il finale è geometricamente, deterministicamente perfetto.

A sigillare l’insostenibilità, e l’ingiustizia stessa, del sopportare prima e risparmiare dopo, perché i passeggeri del van, ossia il meccanico, la fotografa, la sposa, vorrebbero ucciderlo il sedicente boia, eppure… l’anello non tiene, la legge del taglione recalcitra, mentre il gruppo diviene permeabile alla commedia, all’umoristico e al sarcastico – e non sempre la manovra di Un Simple Accident riesce o, quantomeno, non ci lascia interdetti.

E però si resta ammirati della potenza - più forte di debolezze, sporcature e didascalismi - di questo Panahi, che frontale come, appunto, solo un incidente può essere tira dritto e colpisce porgendo la propria guancia. Onore al merito civile, onore alla temerarietà no future.