Non l’hanno – l’abbiamo – visto arrivare Die, My Love. Aficionada del festival di Cannes – il precedente A Beaufiful Day ha vinto per la sceneggiatura e con Joaquin Phoenix nel 2017 – con quest’ultima sortita Lynne Ramsay ha scelto fari spenti e, sì, un tot di mistero: che fosse con Jennifer Lawrence e Robert Pattinson lo si è saputo a cose fatte, a inserimento in Concorso della 78esima edizione.

Nel cast anche le glorie Sissy Spacek e Nick Nolte, Die, My Love non viene però meno all’imperativo dell’autrice scozzese: fare del cinema materia viva, fessa e disturbante, ché la pastorizzazione non abita qui, l’omologazione è questa sconosciuta e le immagini aberrano la creanza.

In un festival che all’America dà chiavi in mano, se si stratta di fare esame di coscienza e senza sconti – dall’intemerata di De Niro Palma d’Onore a Eddington di Ari Aster - del trumpismo, Ramsay s’accoda, ma nella sua idiosincratica maniera: sono gli States profondi, rurali e, si direbbe, eterni quelli in cui s’incista la sua narrazione, e la denominazione politica pare subordinarsi all’antropologica, all’ideologica.

Sicché Grace (Lawrence, brava, nuda e coraggiosa), neomamma, orfana a dieci anni di età di entrambi i genitori periti in un incidente aereo, compagna di Jackson (Pattinson), che fin quando si scopa (belle scene di sesso, masturbazione compresa) va anche bene, ma se non si scopa… Il disagio psichico, segnatamente la depressione post partum, è incipiente, il bambino affettuosamente estraneo, un cane sopprimibile, i parenti di lui superstiti o, un colpo di fucile nel culo, suicidi: come potrebbe non essere Fall from Grace, arresa alla bestialità, pronta al fuoco cammina con me, incline a farsi male o farsi o farsi fare.

Ramsay naviga a vista nella burrasca dei sensi e del dissenso, prende di mira la frontiera ma si domicilia altrove, dove Grace è sola, solissima, e amore e morte da sempre stanno insieme.

Ramsay gira alla fine del mondo, che è ineluttabilmente interiore, depriva le inquadrature di happy ma non di end, insegue la teleologia a mano armata, ma senza farmaci: la corsa è di salvezza, il rehab d’occasione, omnia vincit amor, chissà.

L’unica, residua certezza sta nel dispositivo ansiogeno del cinema, quello di Ramsay almeno, che delle cortesie per gli ospiti, personaggi e spettatori parimenti, è manifestamente digiuno, di più, sprovvisto.

Non si va per immagini felpate, raccordi facilitati, emozioni di superficie, tutto è fragoroso, dirompente, eccessivo – vi chiederete pure voi, ma non ch’ha uno stereo a casa, deve fare un film per sentire la musica? – epperò sensato, accartocciato a misura e immagine, a congiura e suono del mondo là fuori. Che l’indomita, insubordinata e recalcitrante Lynne affronta con la stessa forza centripeta di sempre: il mondo siamo noi, il mondo è Grace, e si salvi chi può.