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Lo scuru (2025)
C’è un Sud che non si trova nelle carte geografiche. Un Sud fatto di ombre lunghe, di statue che guardano, di vento, cenere e schiuma. Di forme corrose. Lo scuru appartiene a questo Sud. Tratto dall’omonimo romanzo di Orazio Labbate, il film di Giuseppe W. Lombardo, world premiere in concorso al XXIX Tertio Millennio Film Fest, assume l’eredità del Southern Gothic e la trapianta in Sicilia, fabbricando un lessico visivo che sostituisce alla “lingua nera” del libro un bianco e nero espressionista, duro e sanguigno.
Il punto d’innesto è il lutto genealogico - il fantasma del padre come mancanza che ancora parla - e, con esso, il ritorno a casa del protagonista. Ma quel ritorno non è un semplice dispositivo narrativo: è un rito di prova. Nella Sicilia che il film mette in quadro, superstizione e fede popolare coesistono senza essere riducibili l’una all’altra: il segno, la statua, l’esorcismo domestico non sono residui folklorici, bensì pratiche di governo dell’invisibile che anticipano, contendono e talvolta smentiscono lo sguardo clinico contemporaneo. È qui che Lo scuru dialoga con Labbate: il romanzo articolava questa lotta nella lingua, costruendo una prosodia di nerità, un impasto tra italiano, dialetto e invocazione; il film la porta nel regime dell’immagine e del suono, trasformando la frase in figura, la cadenza in ritmo, l’ossessione in geometria.


Lo scuru (2025)
La regia cerca la forma della credenza: campi rigorosi, assi prospettici come recinti, improvvise obliquità che deformano l’orizzonte e producono un’inquietudine percettiva coerente con lo stato del protagonista. Le inquadrature “inclinate” insinuano una frattura tra superficie e sottofondo, tra ciò che appare e ciò che eccede l’apparenza. Il bianco e nero lavora per sottrazione e per contrasti: neri spessi che ingoiano la profondità, bianchi lattiginosi che non rischiarano ma sospendono, volti che emergono da fondali come icone screpolate. È un’immagine ascetica, a tratti “liturgica”, che preferisce la frontalità, gli intervalli, il respiro del silenzio, e che restituisce alla notte la sua densità metafisica. In questo senso l’espressionismo evocato non è semplice citazione ma strumento per riattivare la potenza plastica dell’ombra, sulla scorta di Murnau a Bava passando per certe verticalità dreyeriane, ma piegata al Mediterraneo, al suo calore minerale, alle sue pietre e ai suoi cortili.


Lo scuru (2025)
Se il Southern Gothic americano nasce dal trauma storico del Sud - schiavitù, colpa ereditaria, violenze e fondamentalismi - e ne mette in scena l’inconscio con figure grottesche, case malate, santi perversi e peccatori visionari, Lo scuru opera uno spostamento: il Sud diventa Sud d’Europa (non possiamo dire altro per non fare spoiler). Le colpe non sono rimosse nel sottosuolo della piantagione ma distribuite nell’ordito domestico; il fantasma non è un intruso scandaloso bensì un consanguineo che reclama ascolto; la comunità non è solo ipocrita e punitiva, è anche un corpo di riti che protegge e imprigiona. Qui il “gotico” non coincide con l’orrido, ma con un sacro inquieto, un sovrannaturale prossimo, fatto di sussurri, di tracce, di interdetti. Il film mostra come superstizione e religione popolare continuino a essere dispositivi di senso in un mondo che pretende di ridurre tutto a fenomeno: non come nostalgia, ma come semantica del bisogno. Da questo attrito nascono le scene più forti: quando il gesto rituale non placa, ma apre; quando l’immagine devozionale non rassicura, ma guarda indietro; quando il segno benedetto diventa indizio di altro.


Lo scuru (2025)
Nella trasposizione rispetto al romanzo, l’asse si sposta dalla memoria alla presenza. Se Labbate alternava la Sicilia all’America profonda dell’emigrazione - un’Appalachia specchio e contrappunto di Butera - il film concentra lo spazio: il ritorno è un’immersione, quasi una camera di risonanza dove le voci del passato circolano nel presente. Non c’è naturalismo: la Sicilia come stato della mente. Anche la diagnosi (quale che sia nella sua formulazione narrativa) non funziona come griglia riduttiva ma come controcampo: il male non è solo patologia, è un’eccedenza che il linguaggio medico fatica a pronunciare. È in questo interstizio che prende corpo il “nuovo Southern Gothic all’italiana”: non un esercizio di stile, ma la costruzione di un Sud simbolico in cui il reale è costantemente sfondato dall’immaginario e dal sacro.
Sul piano figurativo, Lo scuru preferisce la misura alla saturazione. La composizione dei quadri - spesso geometrica, talora rigorosamente assiale - lavora per clausole: partizioni nette, soglie, finestre, stipiti, croci, recinzioni. La cornice non è ornamento ma drammaturgia dello sguardo: il dentro/fuori come categoria morale, la soglia come luogo del patto e della violazione. Quando la regia inclina l’orizzonte, non “effettua” un effetto; insiste sull’instabilità ontologica dell’immagine, sulla possibilità che la realtà, come un reliquiario spostato, mostri d’improvviso il suo doppio. L’audio, misurato, biascicato, lascia spazio a una colonna d’aria fatta di rumori minuti, correnti, sussurri: il paesaggio sonoro è poroso, ricettivo, superstizioso anch’esso.
Il fantasma del padre - centrale nel libro – diventa nel film un dispositivo etico. Che cosa si eredita davvero? Sangue, colpa, debito, destino? La figura paterna, sottratta alla retorica del patriarca, appare come un residuo ineliminabile, la prova che il legame non finisce con la morte ma cambia di stato, si fa atmosfera. Da qui la scelta, felicemente controcorrente, di una messa in scena che rifiuta l’effetto facile del jumpscare e preferisce costruire un’atmosfera liturgica, fatta di ripetizioni, intervalli, ritorni di segni, epifanie laterali.


Giuseppe W. Lombardo
Infine, la Sicilia. Metterla in relazione con superstizione e ritualità comporta un rischio - l’oleografia, il folklore di consumo - che il film evita. La Sicilia di Lo scuru non è pittoresca: è minerale, scabra, verticale. Le case, le chiese, non sono sfondi, sono dispositivi ottici e acustici; i volti non chiedono complicità, impongono distanza. La dimensione comunitaria resta ambivalente - come sempre nelle culture della prossimità - ma il film non giudica: osserva. E nell’osservazione riconosce alla superstizione il suo statuto più serio: non miscredenza ignorante, ma grammatica del rischio, tentativo di tenere insieme mondo visibile e mondo invisibile in un’unica frase.
Se il Southern Gothic classico ricorreva alla deformazione per dare figura al rimosso, Lo scuru sceglie la sottrazione per restituire densità all’invisibile. È una via italiana - mediterranea - al gotico. Non chiede alla paura di essere intrattenimento, ma propone una forma che pretende attenzione, un’immagine che chiede di essere abitata, un’ombra che non si limita a spaventare ma domanda responsabilità. In questo stare, austero e ipnotico, c’è la sua modernità. E forse anche il motivo per cui, uscendo dalla sala, l’oscurità ci sembra improvvisamente più spessa - non perché abbiamo visto “il Male”, ma perché il film ci ha ricordato che le ombre, da queste parti, non sono mai soltanto buio. Sono memoria, promessa, giudizio. E, talvolta, grazia.
