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Il Messia (1975), @Webphoto
Ultimo lungometraggio di Roberto Rossellini, Il Messia - evento di preapertura del XXIX° Tertio Millennio Film Fest (Filmoteca Vaticana, 4 novembre) - si colloca nel cuore della sua stagione “pedagogica”, quando l’autore rifonda il proprio cinema pensando la televisione come luogo del sapere condiviso e dell’educazione dello sguardo. Non è un ripiego produttivo: è una scelta estetica ed etica. Lontano dal kolossal e dalla retorica sacra, il film pratica con rigore la sottrazione: piani lunghi, montaggio non assertivo, musica ridotta al minimo, recitazione anti-retorica. Il racconto evangelico è ricomposto per nuclei tematici, più che per suspense narrativa; il pathos è disinnescato, la teatralità evitata. Ne nasce un contro-spettacolo che chiede allo spettatore di farsi compagno di un apprendimento, quasi un catecumenato laico.
La prima mossa, la più evidente, è iconografica. La fotografia asciutta, gli esterni abbagliati, gli interni scabri impongono un’“icona povera”. Luce e polvere sono la materia del sacro. La sottrazione dell’effetto lungi dal negare il mistero, lo protegge. L’Ultima Cena sfiora il muto, la Passione rinuncia a qualunque climax orchestrale. Dove la tradizione del cinema biblico ha spesso cercato l’“aura” mediante l’abbondanza (musica, movimenti di massa, retorica di sentimento), Rossellini la cerca nella misura dello sguardo. Non c’è l’estasi spettacolare del kolossal religioso, ma il pane quotidiano di una fede asciutta, che si misura con la realtà e si riconosce nei gesti minimi.


Il Messia (1975), @Webphoto
A questa decisione formale corrisponde un’idea drammaturgica precisa. Il Messia sposta il baricentro dal prodigioso al contesto: tassazione, amministrazione, rapporti tra autorità religiose e civili, dinamiche del consenso. La predicazione di Gesù emerge come presa di parola dentro un ordine del mondo: le parabole sono atti di linguaggio che interrogano la legge, il debito, la proprietà, la giustizia. In tal senso il film è “storico” nel senso più alto: restituisce il Vangelo alla trama sociale che lo attraversa. È un gesto teologico e politico insieme, figlio di un’epoca post-conciliare che ripensa i linguaggi della Chiesa e la responsabilità delle immagini nello spazio pubblico.
Parola e silenzio sono i due poli della regia. La parola evangelica è detta senza enfasi omiletica, asciugata fino alla funzione didattica; i silenzi operano come pause di meditazione, varchi in cui la durata sostituisce l’enfasi. Non c’è abbandono contemplativo, ma esattezza: la fede come esercizio del discernimento, prima ancora che come emotività. In questo quadro acquista senso la scelta di volti non celebri e di un Gesù “anticarismatico”: non l’eroe mitico del cinema hollywoodiano e di diffuse raffigurazioni folcloriche, ma il maestro e il testimone, sottratto all’aura divistica ma restituito a quella autenticamente divina.
La geografia del film – location nordafricane, terre chiare e ventose - non cerca il pittoresco ma la pedagogia del reale. La luce alta incide sui corpi, la materia del paesaggio determina il ritmo della recitazione, la distanza fra i personaggi disegna un’etica dello spazio. Anche qui Rossellini è fedelissimo a sé stesso: mostrare come si vive, come ci si parla, come ci si guarda, per consegnare le idee alla concretezza dei gesti.


Il Messia (1975), @Webphoto
Il confronto con le altre “vie italiane” al Cristo degli anni Sessanta-Settanta illumina ulteriormente la singolarità del film. Se Pasolini, nel Vangelo secondo Matteo, attinge a un pathos lirico (musiche, canto, compassione dei volti) e Zeffirelli con Gesù di Nazareth spingerà verso il grande affresco internazionale e seriale, Rossellini sceglie la lezione domestica, anti-monumentale. Tre modalità, tre teologie dell’immagine: l’icona povera di Rossellini non smentisce la potenza del sacro, ma la sottrae all’ovvio. In sequenza, questi percorsi raccontano un’intera stagione del rapporto tra cinema e Vangeli: dalla pietà poetica (Pasolini), allo spettacolo catechetico (Zeffirelli), alla responsabilità conoscitiva (Rossellini).
Non mancano i nodi filologici che, oggi, a cinquant’anni dall’uscita, meritano attenzione: versioni e minutaggi difformi circolati nel tempo; materiali di sceneggiatura che attestano una scrittura più “collettiva” (Jean Gruault con Silvia D’Amico accanto a Rossellini); la natura televisiva dell’opera, con le conseguenze di formato e di ricezione che ne derivano. Anche la prima accoglienza, talora orientata a leggere Il Messia come un addio minore, risente di quell’equivoco: scambiare la rinuncia al pathos per aridità, l’economia dei mezzi per povertà dello sguardo. Oggi si impone l’evidenza opposta: la coerenza interna del progetto didattico, che trova qui un compimento rigoroso.
Perché (ri)vederlo oggi? Perché Il Messia parla al nostro regime d’immagini, saturo di effetti e di massimi sistemi emotivi. Mette alla prova la nostra capacità di attenzione, chiede lentezza, chiede di accettare che il sacro non coincida con il sovraccarico sensoriale. Per chi interroga il cinema religioso contemporaneo, il film offre una contro-prova preziosa: se molti dispositivi moderni lavorano sull’eccesso (del suono, del corpo, del trauma), Rossellini propone un’etica dell’“insufficienza apparente”, il peso dei gesti minimi. È una lezione decisiva sulla differenza tra spettacolo del rito e politica del rito, tra emozione indotta e responsabilità dello sguardo.
Il Messia non è un film “su” Gesù nel senso illustrativo; è un film “tra” le parole e i silenzi che lo hanno reso sapienza condivisa. Nel suo modo di disporre i corpi nello spazio, di dosare la luce, di lasciare che una parabola finisca senza coda, Rossellini esercita la virtù della discrezione, assai rara ieri e oggi. Togliere per restituire.
