Che Addiction che fa? Trent’anni orsono Abel Ferrara portava sullo schermo una sceneggiatura scritta dal sodale Nicholas St. John dopo la morte del figlio: The Addiction, realizzato con il budget risicato di cinquecentomila dollari.

Al riguardo Ferrara afferma: «Non ho mai pensato a The Addiction come a un film di vampiri. Mi sono piuttosto riferito alla dipendenza che tutti noi condividiamo, alla fascinazione che proviamo nei confronti del male e della violenza e che sembra scorrerci nelle vene». Questa fascinazione per il male vive del sangue di cui si nutrono i vampiri, un male ricercato nelle parole dei filosofi e mostrato nelle immagini di My-Lai e dell’Olocausto.

Di fronte al precipizio aperto davanti a noi l’Aut-Aut di Kierkegaard rivela per la protagonista Kathleen Conklin (Lili Taylor) la nostra colpa nel cedere al Male: le alternative della nostra esistenza sono anche le alternative dell’esistenza del Male. Il genere horror secondo Ferrara e St. John può mostrare l’orrore del genere umano, la cui vera dipendenza – come sostiene Kathleen – è nei confronti del male: «Questa è la nostra vera droga. Questo è ciò che rappresenta la nostra sete di sangue».

Lo sconcerto serpeggia lungo l’intero film: la cultura alta, quella filosofica e esistenzialista, è vampirizzata da quella bassa, diffondendosi attraverso i morsi di quest’ultima. «Cinema fantastico e filosofia esistenzialista parlano dello stesso oggetto: l’uomo nel suo orrore e nella sua finitezza» (Alberto Pezzotta): di questa “malattia mortale” è ben consapevole Peina (Christopher Walken), il vampiro-filosofo che ha imparato a controllarsi. Ma per lui non vi è possibilità di redenzione: per Ferrara bisogna kierkegaardianamente «volere la propria disperazione, […] volerla in senso infinito, in senso assoluto, poiché un simile volere è identico all’assoluta dedizione». Abbandonarsi ad essa – come già in Bad Lieutenant – è per Kathleen «dischiudersi all’infinito» (Pezzotta) della salvezza: solo così è possibile portare un fiore sulla propria tomba.

Girato in un bianco e nero espressionista che richiama Murnau – già citato da Ferrara con Nosferatu in King of New York –, The Addiction si costruisce nella luce eterea che contrasta il peso del sangue, un sangue nero che sporca le labbra di Lili Taylor / Kathleen Conklin. Il rap di Cypress Hill e Onyx è accostato al Nietzsche di Eine Sylvesternacht: la città “bassa e sporca” condivide la maledizione (Fluch) dell’alta filosofia, perché per entrambe vi sarà sempre un pasto nudo, un’astinenza con cui lottare per non cedere al nostro bisogno di male.

Non che il cinema di Ferrara sia concettualmente povero - basti appunto pensare al background filosofico di The Addiction -, ma tali concetti non sono idee (nel senso originario di éidos, forme) bensì sostanze, che nella carne umana hanno il loro supporto irrinunciabile: la protagonista di The Addiction, Kathleen Conklin, alimenta le proprie inquietudini esistenziali con il sangue cavato ad altri individui.

Questo è il destino di Abel – per parafrasare il libro scritto da una sua focosa ammiratrice francese, Elizabeth Hergott –, un destino terreno e terragno, materico e corporale, forse perché anela alla trascendenza, all’aldilà, avvertibile solo per contrasto, per negazione di un al di qua esplorato nelle sue pieghe più recondite, più putrescenti, quelle pieghe di fronte a cui altri registi arrestano la camera.

Come commenta Kathleen di fronte alle fotografie degli ebrei internati nei lager, «la Storia non esiste», e nemmeno esistono le storie; ciò che interessa a Ferrara è l’hic et nunc dei suoi uomini e donne-personaggi, la loro vita nel suo farsi immediato, colto come tale, secondo una idiosincratica ideologia – con risvolti epicurei – del carpe diem.

Se la memoria già da tempo è vampirizzata dalle immagini (The Addiction), il genere è d’autore, ovvero l’autorialità di genere: «Si fanno sempre – dice Ferrara - film di genere. Cerchiamo di rompere le convenzioni, di raggiungere una verità più profonda e di esprimere quello che c’è sotto. Facciamo dei film di genere perché sono accessibili… Faccio film di genere solo per distruggerli? Ho fatto un film di vampiri solo per distruggere il genere? La gente si aspetta certe cose quando gli si parla di “film di vampiri”; ma noi gli proponiamo qualcosa di diverso. È una tragedia morale dentro un film di vampiri».

Masochismo, autodistruzione, rovina e “suicidio” per un solo corpo e per un cinema unico, entrambi sospesi tra exploitation e arte. E il trait-d’-union diviene una «masochistic aesthetic»: il corpo, o meglio un corpo-guscio, divorato da un altro – il medesimo – corpo. Il vampiro che vampirizza sé stesso: il male che si fa male. Per questo motivo, ci si fa di droga e ci si fa di sangue in The Addiction: l’origine è la medesima, l’autolesionismo.

Non vi è rinuncia, semplicemente perché non è possibile: «Non siamo malvagi a causa del male che facciamo, ma al contrario facciamo il male perché siamo il male», sostiene Casanova (Annabella Sciorra). La nostra addiction è per il Male da cui non possiamo astenerci, ovvero – conclude Giona Nazzaro - «siamo il male in quanto siamo non-Dio?».

Ferrara non sostiene come il suo amico St. John che «ci si deve abituare all’idea dell’Eternità» (Peina in The Addiction) o che di fronte all’idea dell’Inferno «il trucco è abituarsi fin da adesso» (Ray in The Funeral): il suo è il Dio dell’Incarnazione, il volto rivelato di Dio, Cristo, che è carne e sangue.

E sulla carne e sul sangue, ribadiamo, Ferrara impernia il suo cinema: «Adesso capisco, oh Signore, la mostruosità che c’è dentro di noi. La nostra droga è il male. La nostra propensione al male risiede nella nostra debolezza. Non è “Cogito ergo sum”, ma “Pecco ergo sum”», ancora Kathleen Conklin.

Ma nella “banda sbagliata” di The Addiction è Peina il vero filosofo, il più pericoloso, l’unico a perseguire il Male con rigore e freddezza: la sua facoltà di astenersi rivela una mente in grado di convivere con il Male, di governarlo. È casuale, però è Christopher Walken ad interpretare sia Peina che Ray Tempio di The Funeral.

L’altro volto del Male è quello senza futuro di Kathleen, la peccatrice che cade costantemente: «Non voglio sottomettermi!» grida, ma la sua dipendenza arriva fino all’orgia selvaggia di sangue, a cui dà inizio mordendo il collo del rettore. Dopo subentra il collasso e il desiderio di morire, di non arrendersi all’eternità del Male predicata da Peina: fa chiamare un prete, chiede perdono per i propri peccati, viene benedetta e riceve la comunione in Cristo, dopo la comunione nel sangue dell’orgia. Agli occhi di St. John la salvezza di Kathy «risiede indubbiamente nel perdono che chiede a Dio (senza confessare però materialmente i peccati)».

Non solo è assente quella pratica di vita – fino al sacrificio – che consentirà al cattivo tenente di redimersi, manca anche l’esplicita ammissione dell’orrore compiuto e delle vittime vampirizzate. Se leggiamo l’apparizione di Kathy che posa un fiore sulla propria tomba al cimitero come epifania della resurrezione di un corpo e di un’anima, questa risoluzione è da attribuirsi alla Grazia divina: Kathleen è salva (solo) in virtù della Grazia.

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Il testo, rielaborato, viene da Federico Pontiggia Abel Ferrara, il cattivo tenente. Sacra profanaque omnia (2024, Effatà Editrice), già tesi di laurea