I rappresentanti delle confessioni cristiane e delle grandi religioni che sostengono con la propria collaborazione anche la XXIX edizione di Tertio Millenio Film Fest giustamente fanno risuonare questa domanda - nel nome di? - nello spazio del cuore e della mente interpellando il principio della propria esperienza di fede: Dio.

La storia dell’umanità è stata segnata da tante e troppe tragedie nel momento in cui “nel nome di Dio” sono stati compiuti atti gravi e riprovevoli.

Ora, per noi, donne e uomini anche di fede, è facile e consolatorio affermare che chi usa il nome di Dio per commettere violenza e sopruso in realtà sta bestemmiando l’autentico volto di Dio, in ogni tradizione cristiana e monoteista.

Non sono pochi coloro che usano questo “nome” in modo consapevolmente strumentale, piegando ai propri interessi l’Alterità per eccellenza, senza alcuno scrupolo. Ma molto più spesso, non solo nel passato, milioni di fedeli aderiscono a questa visione strumentale di Dio: per ignoranza, per coercizione, per pressione sociale, per logiche di “gregge” … Ma il problema riguarda solo i credenti in Dio? No, per niente. È una riflessione importante quella che anima questa edizione del Festival ma non deve contribuire a generare la convinzione che sia solo un problema delle religioni e del loro Dio utilizzare irresponsabilmente e come scusa il nome di un Altro per giustificare proprie tesi e linee di comportamento arbitrarie. Ci sono categorie nobili quanto quella divina che rischiano questo travisamento. Nel nome della pace, ad esempio, spesso si scatenano corse al riarmo, pur sapendo che la logica della deterrenza è assai pericolosa: basta poco affinché la situazione sfugga di mano generando reazioni a catena incontrollate e irreversibili. La visione di The House of Dynamite di Kathryn Bigelow è istruttiva a proposito. Quanti affari, nel nome della pace, quante ingiustizie subite dalle parti più deboli, quante dimostrazioni di potere. Nel nome dell’ecologia sono state avviate colossali trasformazioni industriali che ancora non capiamo se effettivamente gioveranno alla salvaguardia del creato o se sono modi per attivare nuove e redditizie filiere produttive, per affermare nuove egemonie geopolitiche.

Oppure che dire di quelle azioni di responsabilità sociale a tutela dell’ambiente che spesso corrono il rischio di essere solo produzione di procedure? Si, nel nome dell’ecologia, ma nel cognome del business. Nel nome del benessere: quanta pubblicità promette vite migliori in cambio di semplici acquisti. Ancor più grave è l’implicazione etica, quando forzando la scienza e trascendendo i suoi statuti si giunge a interferenze sui confini della vita: eugenetica, questioni legate al concepimento e al fine vita. Quali sono i confini della ricerca del benessere? È un valore in sé da perseguire sempre e comunque? Solo per alcuni? In nome del progresso: pensiamo alle industrializzazioni forzate di interi territori con il corrispettivo esodo di popolazioni e devastazioni ambientali, all’agricoltura intensiva, alla progressiva cementificazione del pianeta per un’urbanizzazione incontrollata, a fenomeni devastanti come il fast fashion o all’obsolescenza programmata dei nostri dispositivi elettronici. Dove ci porterà la corsa in nome del progresso? E gli esempi potrebbero continuare. La questione però non è che non si debba agire “in nome di”, soprattutto se questo “nome” inteso e pronunciato in verità è “buono”. Il problema è capire come prevenire i rischi di strumentalizzazioni. Da uomo e da prete, per milioni di volte, ho pronunciato e continuo ad utilizzare l’espressione, “nel nome”.

“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” lo dico per farmi il segno della croce, per benedire, per battezzare un bimbo, per iniziare la celebrazione della Messa, per introdurre i pasti, per la preghiera personale… Come può essere autentico questo riferimento? Dire in verità “nel nome di”, significa non pretendere di essere depositari della volontà di una realtà numinosa ai più poco decifrabile. Il modo vero per pronunciare l’espressione è quello di “cedere” il posto al “nome”, affinché “lui” si riveli, come chi è chiamato a portare un messaggio che condivide ma non è suo, che cerca di comprendere mentre con fiducia lo pronuncia. È chi è questo “nome”? Nel caso dei cristiani non è un Dio monolitico, inconoscibile, da temere, ma è un Padre, creatore, che sta prima e dopo ogni cosa, che ha mandato un Figlio tra noi a guarire, consolare, rialzare, perdonare, a predicare l’amore misericordioso, Uno come noi “vero uomo e vero Dio”, che abbiamo conosciuto e ascoltato. Un Padre e un Figlio uniti da un amore ineffabile, lo Spirito Santo, un legame che si offre a tutti per generare nel cuore di ogni uomo lo stesso amore, per sempre. Come ci potrà essere ancora equivoco, sopraffazione, violenza, nel parlare “nel nome di Dio” se in verità si evoca un Dio che è relazione e per l’uomo e la sua realizzazione? Come potranno essere travisati i grandi valori come la pace e la tutela del creato se si fonderanno sull’esperienza spirituale e all’autentico riferimento ad un Dio così?