"Tutta la sua estetica, si pensi alla soggettiva libera indiretta, aveva l’obiettivo di ritrovare la purezza antropologica perduta nell’uomo moderno: negli anni Sessanta sosteneva che persino il proletario era corrotto da dinamiche borghesi di potere e bisognasse ricercare, allora, nel sottoproletariato una verità e un’autenticità possibile solo con un rapporto diretto con la Natura. Pasolini porta questa classe sociale sullo schermo, le dà una visibilità, una voce prima che non aveva e non si poneva neanche il problema di non averla”.

Dall’esordio al cinema con Accattone fino a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Dal 1961 al fatidico 1975, Pier Paolo Pasolini ha sperimentato una precisa estetica stilistica, perfezionando una regia a metà tra la tradizione e innovazione, tra il profondo senso del classico e la necessità di guardare al sottoproletariato urbano del dopoguerra con uno stile nuovo, non conciliante che segnalasse subito squilibri, fratture e disuguaglianze della società.

Parola di Giovanni Greco, scrittore, drammaturgo e professore presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma  che, tra palcoscenico, libri e cinema, si è occupato a lungo dell’intellettuale friulano.

Giovanni Greco
Giovanni Greco
Giovanni Greco

Giovanni Greco, Pasolini si forma nel neorealismo, ma da sin da Accattone impone alla cinepresa uno stile personale, sperimentale, letterario.
“All’epoca la critica parlava di ‘cinema di poesia’. Può sembrare uno slogan, ma leggendo le sceneggiature ci si rende conto che erano già opere d’arte, con una cura di didascalie e battute che non c’è più oggi. E forse neanche prima”.

All’inizio, però, non voleva diventare regista. Sceneggiava per sostenersi.
“Ebbe una formazione artistica, al cinema ci arriva da scrittore, da poeta. Riversa questa formazione sia nell’estetica sia nella direzione degli attori. Totò sul set di Uccellacci e uccellini si lamentava perché non poteva improvvisare come di consueto. Pasolini voleva che si attenesse al copione, che insomma rispettasse la parola scritta. Alla fine ebbe ragione lui”.

Dirigeva, però, anche molti non-professionisti per scelta ideologica.
“Il cinema per lui era un mezzo di ricerca della verità, per cui mescolava e contaminava. Metteva Stracci accanto a Orson Welles. Uomini e donne di borgata conservavano l’autenticità perduta dalla borghesia, l’Italia del secondo dopoguerra aveva un tasso di analfabetismo altissimo, per cui Pasolini filmava le molteplici sfumature della lingua parlata e del dialetto. Una novità rispetto sia al neorealismo che al cinema successivo, perché è vero che questa scelta espressiva sarà recuperata da più film nordamericani ed europei, ma hanno attinto alla realtà del linguaggio non per riprodurla, ma per recitare sé stessi”.

Franco Citti e Pier Paolo Pasolini sul set di Accattone - @ CSC
Franco Citti e Pier Paolo Pasolini sul set di Accattone - @ CSC

Franco Citti e Pier Paolo Pasolini sul set di Accattone - @ CSC 

Lo scarto più evidente dalle regie neorealiste è, per esempio, nell’uso dello spazio e del tempo.
“Faceva pochi totali, prediligeva inquadrature che traducevano sin da subito il conflitto di classe. Penso all’Edipo re, a La ricotta o a Cosa sono le nuvole? Nella sua cinepresa si riflette sempre il conflitto tra il mondo antico e il mondo moderno, tra materno e paterno. Un conflitto volutamente irrisolto, come segnalano i campi e controcampi che usa per filmare i dialoghi. Una scelta non così comune all’epoca".

La ricotta di Pier Paolo Pasolini (Webphoto)
La ricotta di Pier Paolo Pasolini (Webphoto)

La ricotta di Pier Paolo Pasolini (Webphoto)

A ben pensarci anche autobiografica.
“Da intellettuale, prima che da regista, sentiva la necessità di mettere in scena il suo tormento. Penso ancora ad Edipo re, un film fondato su un mito conosciutissimo e abusato, ma è una delle regie più personali e autobiografiche che abbia mai realizzato. Basti guardare l’uso che fa del tempo scenico: si passa dal presente, al tempo mitologico e poi si ritorna nel finale al presente. Stesso discorso in Medea: dietro l'apparenza del mito, si può vedere un regista che piega tempo e spazio alle sue personali esigenze di raccontarsi come forza del passato”.

Queste scelte di regia, difatti, sono agli antipodi del neorealismo.
“Sì, siamo lontani da Sciuscià: la questione non era più quella di cercare un’empatia con lo spettatore, di ricostruire il tessuto sociale, perché l’epoca era cambiata, l’Italia del dopoguerra era mutata antropologicamente. La sua urgenza era, invece, collocare il suo cinema nel suo travaglio personale e politico. Rivendicare la diversità, quello che definiva ‘lo scandalo del contraddirmi’”. 

A proposito di contraddizioni, da intellettuale marxista, nemico del consumismo, si vota al cinema: l’arte capitalistica per eccellenza.
“Pasolini stesso considerava i film della Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte, ndr) un’operazione capitalistica e commerciale. Sono prodotti che ebbero un’enorme successo al botteghino, ma volutamente voyeuristi, morbosi nell’ostentazione di corpi nudi maschili e femminili, fatti da chi contestava alla radice questo sistema. Il cinema negli Stati Uniti è un arte industriale, in Europa c’è o c’è stato il cosiddetto cinema d’autore e in questo caso cinema di poesia, ma sempre in un meccanismo produttivo diverso da quello letterario. Pasolini, da marxista, intuisce la contraddizione di un prodotto che ha senso solo se incassa”.

Anche il momento storico scelto per passare dietro la cinepresa è contraddittorio.
“Ci arriva quando escono Le ceneri di Gramsci, che esprimono la crisi verso l’adesione al marxismo gramsciano, una figura paterna dalla quale sente, però, di dover prendere le distanze. Il co-fondatore del PCI parlava della necessità di una cultura nazional-popolare, Pasolini si accosta ad un medium nazional-popolare dandogli un’accezione negativa”.

Pier Paolo Pasolini sul set de La ricotta (copyright Reporters Associati Archivi)
Pier Paolo Pasolini sul set de La ricotta (copyright Reporters Associati Archivi)
Pier Paolo Pasolini sul set de La ricotta (copyright Reporters Associati Archivi)

Tornando alle sue regie, balza subito agli occhi un’autorialità forte, marcata che tende a imporre la sua visione a tutti i reparti del set.
“Si tratta di un profilo ibrido e irripetibile: il suo fortissimo legame con la tradizione influenza regia, scenografia, sceneggiatura, montaggio, musiche. In Empirismo eretico, per esempio, teorizza il montaggio come morte del film, come momento che dà senso a tutto il girato. Girare una sequenza per lui è come scrivere una poesia o un romanzo, il montaggio è l’equivalente della poesia perché lavora sulla struttura, crea analessi, prolessi e dissolvenze, definendo a livello semiologico un cinema non solo verbale”.

I primi piani ricorrenti su Ninetto Davoli traducono questa tensione?
“Sì: è uno dei tanti stilemi che usa per restituire al linguaggio cinematografico una forma non verbale. Nei suoi film Ninetto ha sempre uno sguardo che si affaccia, che si sporge verso l’esterno: Pasolini vuole rappresentare quest’occhio che guarda senza compromessi, con una naturalezza non corrotta dalla cultura dentro cui lui stesso stesso vive”.

La sua regia è sempre aggregante, combinatoria. Unisce cinema, letteratura, attualità, scultura, pittura. Come dire: il cinema non si fa solo con il cinema, ma con l'arte tutta e la realtà.
“Questa è la sua eredità più profonda, figlia di un percorso artistico irripetibile. Il cinema, più di altre forme espressive, gli consentiva di giocare con la molteplicità di riferimenti, cosa impossibile forse in letteratura, anche se Petrolio non è solo un romanzo. Questa scelta, però, isolò lui che rimaneva un personaggio pubblico e mediatico da quelli che erano teoricamente dalla sua parte. La cosiddetta poetica del brutto, con dettagli e primi piani su ciò che è antiarmonico e disequilibrato, segnalava un rapporto diverso con il classico: non idealizzato, né sublimato e risolto in forma universale. Pasolini cercava un classico che si sporca con gli schizzi di fango della realtà, che non tende all’armonia, alla perfezione, alla sua compiutezza”.

Questa visione del classico che valore ha in un cinema che comunque doveva essere riproduzione della realtà?
“Traduceva l’idea di una realtà che sia più complessa e contraddittoria di quello che sembra che non può essere capita senza apporti culturali e naturali, politici e mediologici. Questa mescolanza, però, non ha trovato proseliti”.

Non ci sono registi pasoliniani oggi?
“Secondo me è molto difficile fare dei nomi. Detto di Caligari che è forse il suo epigono più prossimo e dichiarato, con tutte le cautele del caso, un autore pasoliniano potrebbe essere Lars Von Trier per scrittura e scelte di regia. Un altro potrebbe essere Lanthimos, proprio per il rapporto con il mito”.

Claudio Caligari sul set di Amore tossico
Claudio Caligari sul set di Amore tossico
Claudio Caligari sul set di Amore tossico

Che film girerebbe oggi, allora, Pasolini?
“Altra questione molto difficile. Oggi il mutamento antropologico si è compiuto da un pezzo, quel cinema lì non è più possibile: non c’è più quel pubblico o quegli attori. Un film come Appunti per un Orestiade africana non troverebbe né produttore né consenso né spettatori, come altri film profondamente datati”.

E la serialità?
“Il cinema, come la letteratura sono prodotti del proprio tempo e non espressioni del genio individuale. Lo stesso vale per le serie tv. Probabilmente le girerebbe con apporti multipli e diversi che hanno sempre meno spazio nel mainstream. Anche se tecnologie come internet hanno cambiato radicalmente il prodotto audiovisivo: penso all’uso accelerato del tempo narrativo, alla velocità del montaggio, alle singole inquadrature. Lui comunque sperimenterebbe”.