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Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), @Webphoto
Cinquant’anni fa Salò o le 120 giornate di Sodoma scandalizzava il mondo e, quasi nello stesso tempo, il suo autore veniva assassinato a Ostia. Doppia ricorrenza, casuale e tuttavia carica di senso. È come se quel corpo martoriato, sacrificato, su cui si era accanita una violenza esagerata e orrenda, fosse anche l’ultima immagine che il poeta potesse consegnare al mondo: l’ultima, dopo Salò. Un sigillo tragico che, senza aggiungere parola, riconduceva il film alla sua verità più nuda: il potere sul corpo.
Salò non è un testamento nel senso sentimentale del termine, ma è l’opera in cui Pasolini stringe, con una lucidità glaciale, i fili teorici, politici e formali che avevano attraversato tutto il suo cinema e la sua saggistica. Qui quelle linee diventano disegno, mappa del dominio. Non un film “sul fascismo”, ma un film sul potere che attraversa le forme del fascismo storico per consegnarci il profilo di un fascismo nuovo, che organizza il desiderio, normalizza i corpi, trasforma l’obbedienza in abitudine.


Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), @Webphoto
La scelta di trasporre Sade nella Repubblica sociale italiana non è stravaganza letteraria. Sade fornisce l’ossatura dell’azione (la serialità, la meccanica delle perversioni, il catalogo degli atti), mentre l’RSI fornisce il laboratorio storico in cui il potere, spogliato di ogni romantica giustificazione, si espone nella sua pornografia amministrativa. Ne nasce un cortocircuito: l’atemporalità dell’orgia e l’attualità della burocrazia. Pasolini le tratta entrambe con freddezza, distanza, frontale evidenza. Il piacere non è più vertigine, è protocollo. Così il racconto si apre su un Antinferno che è codice e contratto, e prosegue nei tre gironi – delle Manie, della Merda, del Sangue – secondo una progressione dantesca sottratta alla catarsi.
L’abiura alla Trilogia della vita è totale. Lì il sesso era rimasto residuo vitalistico, energia popolare ancora non colonizzata; qui il corpo è già integralmente catturato. La società dei consumi, scriveva Pasolini, è il vero nuovo fascismo perché non reprime dall’esterno, ma convince dall’interno: impone modelli e desideri, rende desiderabile la norma. Salò mette in scena questo scarto epocale trasformando la violenza in “normale” amministrazione. Il gesto più scandaloso del film non è l’oscenità delle pratiche, ma la loro forma: la geometria delle inquadrature fisse, la perfezione degli interni, il nitore dei costumi, la cortesia da salotto con cui ogni abuso viene annunciato, narrato, perpetrato. L’orrore è incorniciato da musica d’epoca e da canzonette, come se una mano di smalto borghese volesse coprire la corrosione sottostante. È qui che il film acquista la sua forza scandalosa: non spettacolarizza, normalizza l’osceno, lo rende compatibile con l’educazione morale dello spettatore occidentale. Ci mostra, in anticipo di decenni, lo smile, il volto sorridente del dominio.


Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), @Webphoto
In questa prospettiva, il tanto discusso “Girone della Merda” cessa di essere una provocazione e si rivela per ciò che è: un’allegoria economica. Mangiare/escretere, produrre/scartare: la catena alimentare come catena di montaggio, l’eguaglianza nella degradazione come principio d’ordine. Il rifiuto che ancora oggi sortisce la visione – imbarazzo, difesa, fuga – è previsto e sorvegliato: il dispositivo visivo non concede sbocchi, reprime l’empatia, respinge l’identificazione. Pasolini lavora contro la psicologia e contro il melodramma perché, brechtianamente, non vuole che “si senta”, vuole che “si pensi” lo statuto dell’immagine e il lavoro del potere sul corpo. Per questo le vittime sono quasi sempre anonime, le loro storie ridotte a silhouette; per questo i quattro Signori – politico, ecclesiastico, giudiziario, economico – compongono un tetragramma non di personaggi, ma di funzioni. È una coreografia di poteri, una quadratura che organizza spazio e tempo secondo un principio seriale. Sembra cinema del passato, è invece una radiografia del presente: quella serialità protocollare anticipa l’algoritmo che oggi ordina gusti, carriere, reputazioni, pene.
La modernità di Salò sta anche nell’aver immaginato la biopolitica prima che il termine entrasse nella lingua comune degli studi umanistici. Selezione, sorveglianza, delazione, uso e scarto: il percorso dei ragazzi catturati e cullati nella sala da pranzo prima, addestrati e indirizzati poi, è un manuale del governo dei corpi. Non c’è pathos e non c’è sadismo: c’è una macchina in funzione. E come in ogni macchina ben oliata, ciò che la tiene in moto è l’abitudine: il “così fan tutti” di chi obbedisce, ma soprattutto il “così si fa” di chi comanda. In questo senso le narratrici – e fra loro la pianista – sono figure-chiave: mediatrici fra parola e atto, rivestono l’orrore di narrazione e di musica, lo rendono presentabile. La loro voce è cosmesi estetica di un’industria che vuol rendere digeribile l’indigeribile.


Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), @Webphoto
Pasolini esibisce una cura formale come non si era mai vista nei film precedenti. Il tableau frontale, la profondità scenografica, la simmetria dei saloni, l’uso controllato dei movimenti di macchina costruiscono un teatro elegante dove ogni gesto è leggibile e irrimediabile. La mano del regista ci costringe dentro una griglia dove la Storia (l’RSI, il cerimoniale, la violenza di Stato) e la storia privata (i corpi giovani, i desideri, le piccole resistenze) non si incontrano mai: scorrono parallele fino al finale, dove la tortura diventa routine e il ballo ritorna come rituale d’evasione. Quell’ultima immagine – i carnefici che danzano mentre altrove si infligge dolore – arriva fino a noi come l’emblema della nostra distrazione contemporanea. L’intrattenimento è il rumore bianco del potere.
Che Salò sia stato sequestrato, censurato, odiato e poi canonizzato non sorprende. Ogni società ha i suoi dispositivi di rimozione, e Salò li intercetta puntualmente. Ma ciò che importa nel cinquantenario non è rimettere in scena l’eterna disputa morale tra libertà artistica e scandalo, quanto riconoscere la tenuta teorica e politica del film. Salò non invecchia perché non si limita a denunciare; spiega come funziona il dominio, e lo spiega con i mezzi specifici del cinema (il montaggio come idea, la composizione come etica, il fuoricampo come responsabilità dello sguardo). A chi chiede al cinema di “rappresentare” il reale, Pasolini risponde che il cinema può e deve “mettere in forma” le strutture che governano il reale. L’oscenità qui è strettamente legata alla visibilità: non ci scandalizza ciò che vediamo, ma ciò che comprendiamo della nostra posizione di spettatori, complici e addestrati alla spettacolarità.


Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), @Webphoto
La distanza con la Trilogia della vita non è retractatio sentimentale: è cambio di paradigma. Là la natura sfuggiva ancora – per qualche scampolo – alla colonizzazione consumistica; qui la cultura del consumo ha già inghiottito la natura e la restituisce sotto forma di merce. La sessualità non è più festa, è organizzazione. L’immaginario non è più campo di libertà, è campo di addestramento. Di qui la necessità di una messa in scena che rifiuti l’euforia, l’effusione, l’“umano troppo umano” dell’immedesimazione, per proporre l’aridità, la freddezza, il rigore. Salò chiede allo spettatore maturità di sguardo. È una pedagogia dura e, proprio per questo, preziosa.
Nel tempo dell’IA, dello streaming, della pornografia digitale e del populismo social, il film continua a smontare il nostro impulso compulsivo alla fruizione. La sua modernità, se vogliamo dirla con una formula, è nella trasformazione della pornografia in storiografia: ciò che in Sade resta esercizio senza Storia, in Pasolini diventa figura della Storia. È la stessa trasformazione che converte il “corpo” in “corpo sociale”, l’atto in “atto amministrato”, la punizione in “regime”. Nessuno, allora, aveva osato spingersi tanto in là nella rappresentazione della violenza istituzionale senza ricorrere al pathos o alla retorica. Nessuno, ancora oggi, ha trovato un modo più esatto per dire come il potere vede i corpi: come un inventario, come una scorta, come una risorsa da usare e da scartare.
Per questo Salò resta inattuale e necessario. A cinquant’anni di distanza, nell’eco della morte del suo autore, il film non chiede più di essere amato o detestato, chiede di essere capito. E compreso, finalmente, per ciò che è: un cinema che ci guarda, mentre noi, ancora, cerchiamo di distogliere lo sguardo.
