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Alice Rohrwacher (foto di Karen Di Paola)
Negli ultimi venticinque anni il cinema italiano ha attraversato una metamorfosi profonda: si sono spostati i centri produttivi, sono cambiati i percorsi di formazione degli autori, è mutato il rapporto con il pubblico, che oggi abita tanto la sala quanto gli schermi domestici e tascabili. Eppure, in questa mutazione continua, il cinema resta uno degli specchi più vivi e più fragili della nostra identità collettiva.
In questo quadro, pochi autori come Alice Rohrwacher hanno dato forma alla transizione: restituendo meraviglia e una tensione civile, un bisogno di sacro e di comunità che parevano smarriti. Sulla scorta di una tradizione che guarda a Pasolini, Olmi e Citti, ma con una cifra squisitamente personale, Rohrwacher – da Corpo celeste a Le meraviglie, da Lazzaro felice fino a La chimera – ha unito mito e realtà, tradizione e contemporaneità, gesto poetico e radicamento nel reale.
Con lei abbiamo ragionato sullo stato del cinema italiano, sulle sue difficoltà e le sue speranze, sul mestiere di autrice oggi e su cosa significhi, in un’epoca di immagini inflazionate, continuare a credere nel potere del cinema: “Purché non ci si riduca a raccontare il mondo contemporaneo: il cinema italiano deve immaginare un mondo possibile. Deve lavorare sull’utopia, sulla possibilità di immaginare sentimenti che non conosciamo, di raccontare cose che non incontriamo, emozioni che non conosciamo nella speranza che possa contribuire a costruire un mondo diverso. Il cinema non ha una funzione descrittiva ma una funzione evocativa e quindi non credo che il problema sia il rapporto del cinema con la società contemporanea quanto lo spazio dell’utopia nella società contemporanea. Il mettere in gioco delle storie che partano dalla realtà per immaginare un’altra realtà”.


Alice Rohrwacher (Illustrazione di Carlo Costanzelli)
Se ti chiedessi una fotografia del cinema italiano oggi, quale parola useresti e perché?
Direi “in trasformazione”. È un cinema che risente di una crisi più ampia - educativa, simbolica, sociale - e che però continua a cercare forme nuove. Non basta descrivere il presente: dobbiamo immaginare mondi possibili. Il cinema, per me, non è solo funzione narrativa ma funzione evocativa: apre varchi, non li chiude.
Che cosa ti sembra manchi, o serva, perché questa trasformazione diventi slancio e non solo sopravvivenza?
Direi immaginazione e rischio. Il cinema non deve limitarsi a descrivere il presente: deve immaginare un mondo possibile. Bisogna proteggere il rischio perché un film vivo accetta la possibilità di disfatta: è lì che può nascere qualcosa di nuovo. Se qualcosa non rischia, è più facile ma anche più morto. A me interessano le opere che restano vive dentro di sé, che aprono varchi invece di chiuderli.
Le piattaforme hanno cambiato l’ecosistema della visione. In che misura questo ha inciso su linguaggi e pubblico?
È ambivalente. Da un lato hanno liberato il cinema dall’obbligo della trama, perché quella funzione se l’è presa la serialità e questo ha aperto spazio a esperienze più sensoriali. Dall’altro hanno alimentato l’illusione del controllo: stop, rewind, velocità; ci si abitua a gestire l’opera. Inoltre, manca una curatela. Gli algoritmi consigliano, ma non è la stessa cosa di una linea editoriale che pensi percorsi e costellazioni. Vorrei figure che diano senso al catalogo – come accade in alcuni spazi cinefili o televisivi – capaci di costruire un montaggio di visioni e non soltanto una lista. Non si tratta di opporsi alla tecnologia: si tratta di abitarla con responsabilità culturale.


Corpo celeste
La sala, invece?
È un esercizio di abbandono: ti siedi e accetti la perdita di controllo. Lì riscopriamo l’esperienza collettiva. Io, in sala, non posso spegnere, non posso accelerare, non posso uscire; devo restare lì anche quando la visione è particolarmente in salita, faticosa. Però solo così riesco a raggiungere quella vista e quella vita. Ecco, questo è un tipo di esperienza che vale la pena fare insieme, ed è esperienza cinematografica. È anche molto bello ridere insieme: anche quella, secondo me, è un’altra esperienza da riscoprire - la vera leggerezza cinematografica, oggi rara e difficile da trovare. Non è semplicemente la commedia: è un sentimento di allegria comunitaria, che mi pare sempre più raro. Ed è bello anche affrontare insieme i drammi che sembrano insuperabili.
Che cosa dovremmo ripensare concretamente per rianimarla?
La programmazione. Dove si riflette sul senso di una proposta, il pubblico si ricrea. Non possiamo ripristinare l’epoca pre-piattaforme; possiamo immaginare un’alternativa, domandandoci quali esperienze vale la pena fare insieme: la fatica, la meraviglia, il ridere comune, l’affrontare i drammi. La sala è una cima che si raggiunge in gruppo: solo lì si apre il panorama.


Le pupille - Foto di Simona Pampallona
Spesso chiedi “educazione allo sguardo” più che “ora di cinema”. Che cosa intendi?
Siamo abituati a cercare nelle immagini solo la storia, cioè il messaggio esplicito. Ma il cinema è anche un sistema di segni: il senso non coincide con la trama. Questo alfabeto simbolico è istintivo e antico, e oggi lo frequentiamo meno. Vorrei che ai ragazzi si insegnasse non l’ora di cinema intesa come proiezione, ma un’autentica educazione dello sguardo.
Il tuo sguardo viene spesso definito “fiabesco”. Quanto c’è di politico in quella parola, e come la intendi tu?
Le fiabe sono vere. La fiaba non è evasione; è una porta simbolica sul reale e mira all’universale. Non sopporto che “fiabesco” venga scambiato per astrazione indolore: per me è tagliente e politico. E non è in contrasto con un cinema documentario alto: i film che sanno restituire il mistero del reale lo dimostrano.
Che cos’è il mistero per te?
L’uomo ha sempre avuto un rapporto di senso con le immagini, fin da quando ha lasciato i primi disegni nelle caverne. È dunque qualcosa di profondo, innato, istintivo, che però, nell’artificialità della società contemporanea, si è in parte smarrito: ci si concentra soprattutto sul messaggio esteriore dell’immagine, cioè sulla storia, sulla narrazione. Bisogna invece ricordare che dentro le immagini esistono segni che danno senso al di là della storia.
Molti dei tuoi film attraversano archivi, resti, reperti. Che cosa cerchi nel passato?
Cerco senso, ma prima ancora cerco un’esperienza originaria: un’immagine fondativa, carica di aura, che non si esaurisca nella sua spiegazione. Vogliamo che la memoria abbia un ordine, sì, ma quell’ordine per me nasce dall’incontro con qualcosa che ci precede e ci eccede. Viviamo un tempo quasi borgesiano, di documentazione eccessiva: per ricordare tutto servirebbe più tempo della vita. Allora serve anche l’oblio attivo, lasciare dei vuoti, perché il vuoto fa risuonare ciò che è davvero necessario. Nei resti non cerco solo informazioni: cerco una domanda. I reperti, gli archivi, le fotografie, i frammenti di pellicola sono come corpi che ci guardano e chiedono giustizia.


Josh O'Connor e Alice Rohrwacher sul set di La chimera
(Simona Pampallona)Come ne La chimera.
In La chimera non ci sono oggetti muti: hanno un respiro che viene da un “tempo profondo”. Lì capisco perché continuo a girare su pellicola: per tenere traccia dell’impronta della luce sulla materia, per restare vicina a un atto primario dell’immagine. Ordinare il passato e costruire la memoria del futuro, per me, significa permettere a quell’aura di tornare a parlare oggi; non fare musei, ma aprire passaggi. Quando l’immagine conserva un margine di mistero, può ancora guidarci.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando su due fronti: da un lato un film “tradizionale”; dall’altro un progetto che probabilmente girerò prima, un film muto ambientato nel presente e con produzione straniera, proprio perché è un momento complicato e lì ho trovato la libertà di sperimentare davvero. È come un film degli anni Venti: musica dal vivo o registrata, cartelli, e tutto affidato alle immagini.
Perché il muto oggi?
Non è tornare indietro: il muto non è il passato del sonoro, è un’altra forma di racconto. Mi interessa capire come un film comunichi solo con le immagini e con la musica, come se la parola avesse impoverito - in parte - la sperimentazione visiva. È anche un atto di libertà: accettare il rischio di fallire per cercare qualcosa di vivo. Lo sento contemporaneo: pensa a quanto spesso oggi immagine e suono sono dissociati; dentro il muto c’è qualcosa che non è mai passato.
Il rapporto con il sistema produttivo italiano: ti senti capita, sostenuta?
È una domanda a cui non posso rispondere io. Amo molto il mio Paese e il film muto lo girerò in Italia. In questo caso lavoro con capitali stranieri perché mi lasciano libertà di provare e anche di sbagliare: più alto è il margine di disfatta, più alta può essere la riuscita. Cerco film vivi: la vitalità comporta rischio.


Le meraviglie di Alice Rohrwacher
Dentro questo scenario, cosa ti ha riacceso lo sguardo di recente in sala?
Vermiglio di Maura Delpero. A Cannes Il suono di una caduta di Mascha Schilinski e Sirat di Oliver Laxe: esperienze cinematografiche che sarebbero state diverse a casa. Hanno avuto senso anche perché le ho viste con molte persone: il mio corpo è diventato un corpo collettivo. E poi Sciatunostro di Leandro Picarella: meraviglioso. Sono film che mantengono un mistero e continuano a interrogarti.
Si parla spesso di “rinascita” del cinema femminile: la percepisci come svolta o come tappa ancora fragile?
Finché resta una domanda, è un passo fragile. La vera svolta sarà quando non ci sarà più bisogno di nominarla. Desidero più registe, più sguardi, fino al punto in cui la differenza non farà notizia. Nel frattempo, molte autrici stanno già forzando i linguaggi con coraggio, in film grandi e piccoli.
Se dovessi lasciare un’immagine-bussola a chi comincia adesso, quale sarebbe?
Quella di una discesa. Sotto la superficie c’è sempre un passaggio, una soglia, un oggetto che chiede ascolto. Cercate i segni prima della storia, il ritmo prima della trama, la comunità prima dell’io. E poi, ogni tanto, toglietevi dal controllo e affidatevi a uno schermo condiviso: lì lo sguardo si allarga.


