È del 2012 Diaz – Non pulire questo sangue di Daniele Vicari. Il film è il reportage dei fatti del G8 del 2001 in cui alcuni reparti mobili della Polizia di Stato fecero irruzione nel complesso scolastico Diaz-Pertini e Pascoli per picchiare e minacciare i manifestanti che l’occupavano. Tante furono le persone massacrate, pochi i colpevoli condannati. Vicari, che ha fatto del cinema sociale e politico suo baluardo, ha rimesso in scena quasi dieci anni dopo ciò che era impossibile da credere, figurarsi da vedere.

Un punto nevralgico per una collettività che non poteva trovare sicurezza nemmeno tra le aule di un istituto adibito a rifugio in cui incontrarsi e rimettere insieme le forze per manifestare. Lottando per il futuro, un po’ ciò che il 2025 e le sue piazze ci hanno ricordato.

Ciò a cui la realtà sta assistendo è la risposta ad un ventennio in cui i giovani (nel tempo diventati adulti) hanno visto il loro tempo sospeso. Un domani considerato spesso già scaduto e che, per questo, ha impedito loro di crescere. Una disillusione attraversata da crisi economiche e sociali, persino private e sentimentali, riproposte da un cinema italiano che le viveva o in prima persona con i suoi nuovi autori o le osservava da lontano.

Un progressivo offuscamento della meglio gioventù che non poteva più essere come quella di Marco Tullio Giordana, bensì allo sbaraglio alle soglie del nuovo millennio, lì dove la storia dei personaggi del film si chiudeva. Il primo grande segnale di disincanto, oltre che esempio di individualismo rispetto alla società, lo dà Gabriele Muccino con L’ultimo bacio. Lui che nel 1999 raccontava in Come te nessuno mai il passaggio dall’ingenuità alla vita adulta, una storia d’amore con sullo sfondo il desiderio dei figli di emulare i padri sessantottini, invidiati perché avevano avuto qualcosa per cui lottare.

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