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The Fabelmans
Viviamo in un tempo in cui le immagini non ci spiegano più il mondo, ma lo amplificano. Lo rifrangono, lo distorcono, lo saturano. E proprio per questo – oggi più che mai – abbiamo bisogno di ricomporre l’immaginario.
Questo secondo movimento del nostro dossier – 25 anni, 24 fotogrammi al secondo – si muove tra le crepe del linguaggio contemporaneo, nella consapevolezza che il cinema, dopo essere stato sismografo del trauma, può ancora diventare spazio di ricostruzione.
“Il linguaggio costruisce la realtà” ha detto recentemente il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, in un’apparizione a sorpresa durante la cerimonia di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia. Eco di quell’arte che, secondo Brecht, “non è uno specchio per riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo”. Una frase pronunciata in un contesto segnato da guerre vecchie e nuove, da immagini che lacerano, da un desiderio collettivo di significato. Una frase che dice molto anche del cinema: arte del linguaggio visivo, dispositivo di montaggio del senso, macchina fragile e potente insieme.


Spider
(Webphoto)Perché le fratture non sono finite. Dopo l’11 settembre sono venute le crisi economiche, le pandemie, le guerre alle porte d’Europa, la disgregazione delle geografie culturali, la transizione digitale, la colonizzazione dell’immaginario da parte degli algoritmi. Ed è proprio nel momento in cui tutto sembra disgregarsi che il cinema può tornare a essere un campo di resistenza e di ricomposizione.
Non parliamo di ritorno all’ordine, né di nostalgia per forme perdute. Ricomporre vuol dire piuttosto rileggere, riassemblare, rinegoziare il senso. Vuol dire interrogare i nuovi linguaggi (ibridi, transmediali, seriali), osservare dove si è spostato il centro (forse non esiste più), chiedersi chi racconta, cosa racconta, per chi. C’è chi lo fa spingendo l’estetica all’estremo – come i Daniels in Everything Everywhere All at Once o Ari Aster in Hereditary.


Chi scommette sulla forza del racconto classico per difendere la possibilità di un’etica dello sguardo – come Spielberg in The Fabelmans o Scorsese in Silence. Chi ritrova nel sacro, anche in forme deviate, una risorsa simbolica per opporsi al vuoto. Chi porta il linguaggio oltre i margini: tra le pieghe della serialità (The Crown, Squid Game), nei territori decentrati (Gli orsi non esistono, Bacurau, RRR), nei film che sono mappe interiori e geopolitiche al tempo stesso.
Ricomporre l’immaginario, insomma, non è un atto concluso, ma un processo aperto. Un lavoro critico e creativo, che non vuole chiudere un canone ma proporre un paesaggio. Una carta provvisoria, certo, ma utile a orientarsi tra le tante immagini che ci attraversano.
A novembre, il dossier si chiuderà con Specchio italiano: uno sguardo sul nostro cinema nazionale, sulle sue persistenze e mutazioni, sulle sue omissioni e sulla sua capacità di restituire, anche nei momenti più opachi, un riflesso del Paese. Ma ora restiamo qui, tra frammenti e traiettorie, alla ricerca di ciò che tiene insieme. Perché, se è vero che il linguaggio costruisce la realtà, il cinema resta uno dei suoi cantieri più urgenti.