Quando stasera si alzerà il sipario sul 78° Festival di Cannes, la Croisette sarà come sempre un palcoscenico universale. Ma qualcosa, quest'anno più che mai, sembrerà crepitare sotto la superficie della consueta festa dell’immaginario: un'inquietudine sorda, un sentore di svolta.

Non sarà solo l’inevitabile rallentamento dell’industria americana — reso palpabile dal frutto avvelenato degli scioperi degli sceneggiatori e degli attori che, tra il 2023 e il 2024, ha segnato una battuta d’arresto storica nella produzione — a marcare il programma. Né basterà il ritorno, pur significativo, dei "soliti maestri" fedeli alla kermesse a riequilibrare il quadro. Cannes 2025 si presenta come un festival in transito, prigioniero e insieme interprete di un mutamento più vasto che investe l'intera ecologia del cinema contemporaneo.

Oggi, un grande festival non è più solo il luogo di consacrazione dei grandi autori o di scoperta di nuove voci. È (deve essere) laboratorio, cartina di tornasole, perfino scacchiera di una geopolitica delle immagini in cui estetiche, economie, culture e tecnologie si sfidano e si ibridano. In un mondo dove la produzione e la fruizione audiovisiva hanno subito uno spostamento tellurico — dallo streaming che smaterializza il rito collettivo della sala, alla creazione di contenuti "fluidi", verticali, istantanei — Cannes si interroga, consapevolmente o meno, su quale possa essere oggi il suo compito. Non più soltanto mostrare film: ma, forse, resistere e riformulare l'idea stessa di che cosa significhi "cinema".

Nouvelle Vague di Richard Linklater, @Webphoto
Nouvelle Vague di Richard Linklater, @Webphoto

Nouvelle Vague di Richard Linklater, @Webphoto

Non è un caso che proprio quest'anno, sotto la guida illuminata ma anche fortemente simbolica di un omaggio alla Nouvelle Vague (curato da Richard Linklater, regista americano tra i più sensibili all’idea di un cinema personale e artigianale), il festival si ritrovi a confrontarsi con il più grande movimento estetico-politico della storia del cinema. Quella corrente, nata per cambiare il mondo attraverso le immagini, viene oggi celebrata in un contesto in cui a cambiare il mondo — e le immagini — è il capitalismo globale dell'immaginario: una macchina pervasiva, ipertecnologica, frammentaria, capace di produrre un regime scopico instabile, artigianale, sfuggente.

Se la Nouvelle Vague sognava la libertà attraverso la camera a mano e il montaggio libero, il presente impone invece una libertà apparente, disperatamente catturata dentro piattaforme, algoritmi, flussi incessanti di contenuti. È la differenza, potremmo dire, tra scardinare le regole e navigare un mare senza più rive. In questo quadro, Cannes diventa una strana arca: conserva, protegge, testimonia, ma si muove su acque in tempesta.

La memoria assume così un peso crescente, quasi istintivo: nei manifesti che richiamano il passato glorioso, nelle sezioni d’archivio che si espandono, nei premi alla carriera che si moltiplicano. È come se il festival, incerto su quale presente abitare, si appoggiasse sempre più sulle spalle dei giganti. E intanto, il tappeto rosso si trasforma: sempre meno arena di cinema, sempre più passerella di spettacolo sartoriale. Il nome di chi lo attraversa cede il passo al commento sul look, il profilo Instagram surclassa il pedigree filmografico. Anche quando, con una svolta paradossale e un po’ schizofrenica, si tentano restrizioni all’indecenza, a riaffermare una laicità tutta francese, contraddittoria come spesso capita oltralpe.

Thierry Frémaux
Thierry Frémaux

Thierry Frémaux

(Karen Di Paola)

Eppure, nonostante tutto, Cannes resta. Anzi, resiste. Frotte di professionisti, di giornalisti garantiti e di freelance precari, di semplici appassionati e di curiosi in cerca di selfie, continueranno a stiparsi nei corridoi del Palais. Ripeteranno la liturgia cannense — tra sacro fuoco e inevitabili lamentazioni — come si ritorna, senza sapere bene perché, a una fiera antica: di quelle di cui diciamo il peggio, salvo poi tornarci sempre volentieri, come si torna ogni anno a una festa di paese che ha perso la sua funzione originaria ma conserva un magnetismo infantile e irrinunciabile.

La domanda di fondo, allora, non è tanto se Cannes sopravviverà (sopravvivrà, almeno ancora un po’). È: quale cinema sopravviverà grazie a Cannes? Quale idea di immagine, quale idea di spettatore? E quale politica delle immagini il festival oggi — anche senza dichiararlo — sostiene?

In un'epoca che ha accelerato la sparizione della "società dello spettacolo" di cui parlava Debord per sostituirla con la società dell'auto-rappresentazione infinita, Cannes può forse ancora avere una funzione: essere l’ultimo grande specchio magico in cui il cinema — quello vero, che cerca, che ferisce, che scuote — possa ritrovare la propria ombra, il proprio contorno.

Un compito anacronistico? Forse. Ma forse, proprio per questo, ancora necessario.