Li chiamano immigrati coi soldi. Sono gruppi di connazionali che si muovono al seguito di multinazionali, istituzioni internazionali e ONG, vivendo per periodi piuttosto lunghi in un paese straniero. E se il paese è in via di sviluppo tanto meglio: gli alti stipendi e il costo della vita più basso garantiscono un’esistenza molto al di sopra delle loro possibilità. Gli expats sono l’altra faccia dell’emigrazione. Rappresentano un’eccellenza della classe media: poliglotta, sofisticata, cosmopolita. Vivono in lussuosissimi quartieri residenziali, dotati di ogni comfort, spesso con governanti, domestici e massaggiatori locali al loro servizio. Parlano tra loro in inglese, mandano i figli nelle migliori scuole del paese, sono il più delle volte occidentali ma non di rado si trovano tra loro i cittadini dell’Oriente più istruito e privilegiato. Una delle caratteristiche degli expats è che a usare per primi questa denominazione sono loro, a ribadire una dimensione di gruppo estranea alla famiglia dei migranti economici. A sottolineare un sentimento di appartenenza che, come si è capito, tradisce un retaggio di classe. E in effetti costoro non solo abitano vicini, frequentano gli stessi posti, godono dei medesimi benefits e praticano passatempi simili, ma di norma rimangono anche ben separati dai locals (se non per godere dei loro servizi offerti a buon mercato).

Jack Huston e Ji-young Yoo in Expats
Jack Huston e Ji-young Yoo in Expats

Jack Huston e Ji-young Yoo in Expats

È un contesto che la miniserie diretta da Lulu WangExpats, sei episodi su Prime Video rilasciati, uno a settimana, a partire dal 26 gennaio – dimostra di conoscere molto bene. E del resto la regista e sceneggiatrice sarebbe il profilo ideale di un’expat. Cinese ma naturalizzata americana, la Wang è figlia di una curatrice editoriale e di un diplomatico stanziato in Unione Sovietica che emigra coi genitori negli Stati Uniti nel 1989, all'età di sei anni, crescendo a Miami. Un vissuto che riverbera nel bel lungometraggio d’esordio The Farewell - Una bugia buona. Un‘esperienza di contaminazione culturale, duttilità esistenziale e spaesamento sottotraccia, che ritroviamo anche nella serie prodotta e interpretata da Nicole Kidman, di cui è evidente il tocco cinematografico della Wang per come traduce il dato di una scrittura adattata e personale (sceneggiatura a quattro mani con Janice Y. K. Lee, autrice di The Expatriates da cui lo show è tratto) in eleganti geometrie del visivo.

Sarayu Blue in Expats
Sarayu Blue in Expats

Sarayu Blue in Expats

Expats è ambientata a Hong Kong nel 2014, proprio durante il “movimento degli ombrelli” che immobilizzò per 79 giorni il distretto finanziario della città. Gli attivisti chiedevano il suffragio universale, la Cina rispose con ulteriori chiusure. Non è un caso che Hong Kong sia tra i pochi posti al mondo a non poter vedere Expats. Anche se le tensioni internazionali non sono certo il dato politico fattuale della serie. Protagoniste della storia tre donne americane: Margaret (Nicole Kidman) e Hilary (Sarayu Blue) e Mercy (Ji-young Yoo), le cui vite si intrecciano in seguito ad un'improvvisa tragedia familiare. Qualche anno prima il figlio più piccolo di Margaret era sparito in Corea mentre era affidato a Mercy, che si era proposta come babysitter. Le tre donne si ritroveranno a Hong Kong. I temi, filtrati da una tormentata sensibilità femminile, sono tanti e ci parlano di maternità perduta e negata, di perdono e di colpa, di senso di rivalsa e di inadeguatezza.

Expats
Expats

Expats

Muro portante dei sei episodi è il discorso di classe, che cosa sia il privilegio e come si ripercuote sulle relazioni tra i personaggi. Significativo il quinto episodio (di un’ora e mezza!) dedicato alle domestiche filippine al servizio di una delle famiglie protagoniste. Gli uomini non sono un contorno: Clarke (Brian Tee) e David (Jack Huston), rispettivamente i mariti di Margaret e Hilary, hanno i loro fantasmi. Tutti questi personaggi compongono una cerchia coesa e lacerata insieme: la famiglia degli expats è come una gabbia dorata, costretta nella claustrofobia di luoghi caldi e confortevoli ma privi di aperture, in sostanza opprimenti. La Wang lavora decisamente bene sulla texture degli spazi, privilegiando colori saturi e focali medie e lunghe. E se le atmosfere rimangono gravide di non detto, i dialoghi invece sono pungenti, talvolta brutali. 
Danno una ritmica e una forma tangibile ai drammi più intimi che si dipanano al riparo dei nostri occhi.