Era negativa, alla fine, la tanto attesa recensione del Chicago Tribune sul ristorante. Nel finale della precedente stagione ne avevamo colto soltanto singole parole dissonanti, sparate come missili, troppo veloci per potersi assemblare in un giudizio completo. Ora sappiamo, lo scopriamo subito. Si riparte dai cocci, ancora una volta: tra clienti che cancellano le prenotazioni e fornitori che alzano la testa, è necessario trovare una formula magica che tenga in piedi baracca e burattini.

Non è troppo difficile parlar male di The Bear: è una serie che oscilla parecchio nel ritmo, alternando un andamento serrato a lente introspezioni; è ripetitiva, nei continui ostacoli che lo stesso protagonista, Carmy (Jeremy Allen White), continua a frapporre alla sua stessa realizzazione personale e al successo del ristorante; è dolorosa nel carico di esperienze umane che porta con sé, tra cui l'ansia, la depressione, gli attacchi di panico, le dipendenze, il suicidio; è, infine, emotivamente estenuante, per tutti questi motivi.

In cambio, la serie offre uno spaccato crudo e appassionato della vita della famiglia Berzatto, disfunzionale e allargatissima, che va oltre i tradizionali legami di sangue. I personaggi si considerano cugini, figli, madri e zii, e sono sempre pronti ad accogliere nuovi membri nella variegata tribù - una tendenza inclusiva, gioiosa e scompigliata su cui la serie fa spesso ironia. Il caos regna sovrano, insieme al dolore, al terrore di ferire e ferirsi, e all'amore.

The Bear ci mostra la grande fatica di essere persone ordinarie quando non lo si è affatto. E i personaggi sono colti negli incessanti tentativi di cambiare, di trasformarsi. La verità? Non ci sono grandi stravolgimenti in questa stagione ma, piuttosto, gli incerti risultati di una mutazione appena avvenuta, o in fieri. Non mancano certamente le esplosioni drammatiche, ma sono meno ricorrenti. Esternare sentimenti anziché reprimerli ed essere più lucidi e presenti nei rapporti con gli altri è una sorta di mantra che riecheggia in tutti i protagonisti, da Carmy a Syd (Ayo Edebiri), da Richie (Ebon Moss-Bachrach) a Tina (Liza Colón-Zayas). Il loro sforzo comune non riguarda soltanto il salvataggio del ristorante, il loro impegno più focalizzato sul lavoro ha anche, come obiettivo, il raggiungimento di una vita personale migliore. Facile? Per nulla.

Sin dalle origini The Bear danza intorno a un'idea di narrazione asservita ai personaggi e alle loro storie, scegliendo di volta in volta, in ogni capitolo, di mettere al centro quel che i protagonisti hanno da dire. Quindi nessuna costrizione di durata - il settimo episodio dura ben più di un'ora - ma neanche di location. Rinchiudere personaggi in un unico ambiente è una strategia che era stata già usata, con successo, nella precedente stagione, in un gioiellino come Cubetti di ghiaccio, girato quasi totalmente nella sala travaglio che accoglie Sugar (Abby Elliott) e sua madre Donna (Jamie Lee Curtis). Nel settimo episodio della quarta stagione, gran parte delle scene sono ambientate sotto un grande tavolo, e anche nel finale si torna a questa opzione – non sotto il tavolo, però. La grande libertà creativa permette pure di dedicare una puntata alla giornata festiva di Syd, rivelandoci il suo mondo più privato.

Copyright 2025, FX. All rights reserved.
Copyright 2025, FX. All rights reserved.
The Bear - Season 4 -- Pictured: Ayo Edebiri as Sydney Adamu. CR: FX

Pur rimanendo uno dei migliori prodotti seriali in circolazione, anche The Bear forse sta iniziando a mostrare la corda, quel logorio inevitabile dopo trentotto episodi di drammi della ristorazione (che sia un nuovo genere, dopo il "dramma medicale"?). E il ristorante è sempre meno un personaggio a sé e sempre più un contorno, saporito e interessante e, in qualche episodio, del tutto assente perfino dai dialoghi dei personaggi. Perché se il destino del locale e della brigata ci tiene ancora sulle spine funzionando egregiamente come motore della suspense (in questa stagione il countdown di zio Cicero viene rilanciato all'ennesima potenza, in quello che diventa un esempio plateale dei suddetti rischi di ripetitività), è l'intrico dei rapporti interpersonali e la loro evoluzione a essere il centro della narrazione. La miriade di personaggi è messa in scena con un'attenzione alla coralità che in qualche momento ricorda Robert Altman o John Cassavetes, anche per il continuo, estenuante e delizioso accavallamento di dialoghi che dà a ogni puntata una dimensione paradossale da soap iperrealistica (una contraddizione in termini di cui The Bear è fiero portatore).

Dai principali fino ai più marginali, la quarta stagione The Bear elargisce spazio a tutti i personaggi, trovando il tempo di introdurne anche nuovi: quel tempo che sta per scadere, di cui ogni personaggio vorrebbe disporre meglio e di più, contro cui tutti lottano, frammentato negli ormai classici montage che raccontano la frenesia del servizio e della cucina, esplorato nel dettaglio negli episodi in tempo reale, talvolta sospeso e riformulato a piacimento (quanto tempo ci vuole per cuocere un pollo intero?), rinchiuso nei fogli Excel e nei grafici di produttività.

La vita, dice The Bear, è troppo spesso il tempo che passiamo a rimuovere gli ostacoli che ci siamo creati da soli, invece di dare un abbraccio, mandare un messaggio, chiedere scusa, preparare un pasto alle persone a cui vogliamo bene.