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Jafar Panahi sul set di Gli orsi non esistono - @Webphoto
Il 25 maggio 2025 Jafar Panahi riceve la Palma d’Oro per Un simple accident. Non è solo un premio: è una marca impressa sulla pelle del festival e sulla sua. Da quel palco – dove arriva dopo arresti, condanne, clandestinità – Panahi pronuncia parole nette: «Mettiamo da parte le differenze: ciò che conta è la libertà. Che nessuno ci dica come vestirci, come comportarci». La Palma diventa cicatrice pubblica, testimone della violenza subita e, insieme, segno di una resistenza mai ammutolita. È qui che il suo cinema si rivela per ciò che è sempre stato: corpo in lotta, immagine che pensa e ferisce.
Dall’immagine-specchio alla cella reale
Il percorso di Panahi parte da Il palloncino bianco (1995) e dal suo riflesso infantile, per approdare alla claustrofobia de Lo specchio (1997) e poi alla crudeltà circolare de Il cerchio (2000). Con Offside (2006) l’esclusione femminile dallo stadio diventa metafora di un Paese che sorveglia i corpi; con Taxi Tehran (2015) la città viene ridotta all’abitacolo di un’auto, sorvegliata da telecamere interne e da poteri esterni. Fino a Un simple accident, interni sigillati, un furgone bianco e un deserto spoglio: l’immagine si fa labirinto, la narrazione thriller implode in un Kammerspiel di corpi torturati, voci registrate, identità incerte.


Il palloncino bianco - @Webphoto
L’evoluzione formale è un graduale ritirarsi nello spazio chiuso: dall’aperto infantile allo stadio proibito, fino alla stanza di This Is Not a Film (2011) o al furgone di Un simple accident. Ogni restrizione reale imposta dal potere produce una nuova restrizione linguistica: Panahi risponde alla censura con la riduzione dello spazio e l’espansione della ferita visiva.
Cinema-corpo: le immagini che pensano
Jacques Rancière sostiene che «il cinema è il luogo dove le immagini pensano»: in Panahi queste immagini non solo pensano, urlano. Si fanno carne, secondo la lezione di Antonin Artaud e del suo Teatro della crudeltà: il film non rappresenta la violenza, la infligge allo spettatore attraverso la tensione dei corpi confinati. Non c’è metafora: il corpo femminile che sbatte contro la legge (Offside), il corpo dell’artista prigioniero sul divano che filma con un iPhone (This Is Not a Film), i corpi bendati che riconoscono l’aguzzino dall’odore e dal rumore del passo (Un simple accident).


Taxi Teheran - @Webphoto
Questo “cinema-corpo” è anche biopolitica in senso foucaultiano: il potere disciplina i corpi, Panahi li libera mostrandone le cicatrici. Quando la macchina da presa resta immobile in Taxi Tehran, lo spazio vitale è l’interstizio tra sedili; quando la videocamera di sicurezza del garage in Un simple accident riprende l’irruzione della vittima, lo sguardo collettivo della sorveglianza diventa contro-inquadratura etica.
Politica dell’anamnesi
Il thriller di Un simple accident sembra procedere verso il riconoscimento del colpevole; in realtà compie un movimento opposto: riconoscere la vittima nel suo diritto a ricordare. Il cinema diventa archeologia politica, “atto notarile della memoria”, per riprendere la formula di Kleber Mendonça Filho. La verità non coincide con la prova visiva (nessuno ha visto in volto il torturatore), ma con l’emersione di un trauma condiviso. In questo Panahi abbraccia la logica di Didi-Huberman: l’immagine-ferita non documenta un fatto, bensì fa esistere la realtà repressa.
Estetica della clandestinità
Girare con telecamere piccole, con cellulari, con team ridotti non è solo necessità: è poetica. Ogni limite pratico diventa principio formale. La granulosità digitale di This Is Not a Film o la camera fissa dell’auto in Taxi Tehran producono un effetto di verità scandalosa, ma anche di fragilità: l’immagine stessa rischia di scomparire, come il file su pennetta contrabbandato dentro una torta (storia vera della copia di Taxi Tehran spedita a Cannes 2015).


Il cerchio - @Webphoto
Panahi post-Palma
Con l’acquisizione di Neon, Un simple accident si prepara a entrare nei circuiti occidentali, ma resta un oggetto di contrabbando politico. Il rischio è che venga celebrato più come “caso” che come film. Il suo destino critico dipenderà dalla capacità di mantenerne viva la carica performativa: non museo di sofferenze, ma corpo in azione, pronto a contaminare altre immagini, altri registi, altre lotte.
Corpo, camera, conflitto
Il cinema di Panahi è respirazione forzata: ogni inquadratura tenta di allargare lo spazio di chi guarda e di chi è guardato. È “corpo politico” perché si offre come bersaglio, ma anche come sismografo delle tensioni sociali. Nella sua Palma d’Oro si legge la storia recente del cinema iraniano, ma anche il futuro di un’immagine che rifiuta di diventare neutra. In un’epoca di saturazione visiva, Panahi ci ricorda che ogni fotogramma è carne e rischio: pensiero che sanguina, memoria che duole, atto che resiste.