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Nel cinema di Saeed Roustaee la famiglia è spesso un campo minato. Lo era in Leila e i suoi fratelli, lo è ancor di più in Woman and Child, nuovo affresco familiare e sociale che però, a differenza del precedente, finisce per perdere il controllo del proprio impianto narrativo e stilistico, travolto da un eccesso di toni, svolte, urla e metafore. Se esistesse una soglia oltre la quale la tragedia si fa telenovela, Woman and Child la oltrepassa senza voltarsi.
Il dramma si annuncia subito con la sua massima intensità: la morte di un bambino. Ma questo evento – che in altri film equivarrebbe a una frattura definitiva, a una presa di coscienza collettiva – qui non sortisce alcuna reale trasformazione. È l’emblema più amaro del messaggio che Roustaee pare voler lanciare: nella società iraniana odierna, profondamente lacerata da ingiustizie sistemiche e sentimenti di risentimento, nemmeno la tragedia più lacerante riesce a scalfire le incrostazioni culturali di un patriarcato inamovibile.
L’intento del regista è chiaro e nobile: denunciare un Paese in cui uomini e donne si guardano con sospetto e rancore, dove la famiglia non è rifugio ma teatro di scontri interni, dove la religione è assente dalle mura domestiche ma onnipresente nelle dinamiche di potere. Ma il mezzo scelto per raccontarlo – una combinazione di realismo sociale e iperbole da soap – finisce per depotenziare il discorso, trasformandolo in una pantomima stilizzata. L’accumulo bulimico di eventi – espulsione da scuola, tradimenti, rivelazioni, tragedie, vendette – genera un effetto paradossale: invece di rafforzare la denuncia, la smorza, la rende artificiale, talvolta grottesca.
L’approccio registico è di una rudezza che non conosce sfumature: primi piani sparati, macchina a mano nervosa, dialoghi infiammati e interpreti costantemente sul punto di esplodere. A risentirne sono tanto il ritmo quanto l’emotività. La tragedia non commuove, esaspera. Le svolte non coinvolgono, affaticano. Tutto è “alto”, urlato, caricato di pathos. Con una sola eccezione: il bambino Aliyar, figura realmente viva, irresistibilmente irrequieta, che ricorda Antoine Doinel de I 400 colpi in una bella scena ambientata nel laboratorio scolastico. Ma è proprio lui, il più giustificato negli eccessi, a uscire di scena troppo presto. Quando il film perde il suo cuore pulsante, rimane solo l’impalcatura, traballante.
Roustaee non è nuovo al melodramma. Ma mentre in Leila l’impianto corale e la forza dei dialoghi tenevano insieme la tensione, qui si avverte con troppa chiarezza il peso del copione: i personaggi si muovono come pedine su una scacchiera già tracciata, inchiodati a ruoli e reazioni. L’impressione è che la sceneggiatura abbia deciso tutto in partenza – chi tradisce, chi muore, chi urla, chi si vendica – impedendo ogni reale evoluzione o ambiguità.
Certo, il cast è di valore: Parinaz Izadyar si spende con intensità, sebbene incatenata in un ruolo che le richiede solo due registri, dolore e furia; Payman Maadi diverte con il suo fascino da rettile, Soha Niasti regala qualche momento più sottile. Ma non basta. Il film procede per accumulo, alzando ogni volta la posta, come se il trauma precedente non fosse sufficiente. È il principio delle "pietre che piovono" – una strategia che il miglior realismo sociale sa gestire con equilibrio. Ma qui il vaso è colmo già a metà, e l’ultima parte del film rischia il collasso.
Il desiderio di riconciliazione finale, se c’è, suona stonato. Come imposto. Come se, dopo tanto dolore, la narrazione non sapesse più dove andare e si rifugiasse nella retorica. Woman and Child voleva essere una tragedia contemporanea, si riduce a uno schema sovraccarico. Voleva raccontare una società senza speranza, ma finisce per restituirne solo una versione impoverita, filtrata da una lente troppo opaca.