Ritorno a Venezia di Gastón Solnicki già alla Mostra nella sezione Orizzonti nel 2016 con Kékszakállú (Barbablù) e nel 2019 fuori concorso con Ritorno all’oscuro.

Il titolo di questo suo ultimo lavoro ha origine dal francese souffleur. Nelle due lingue condivide lo stesso significato: colui che soffia, il soffiatore. Inglese o francese che sia, il temine può essere inteso con significati che possono tornare utili nell’interpretazione della storia di Lucius Glanz (Willem Dafoe), il direttore del prestigioso e decadente Hotel Intercontinental di Vienna che sovrintende da oltre trent’anni.

Nonostante le glorie del passato e i primati che detiene (è il primo gigantesco albergo appartenuto a una catena di hotel in Europa), la struttura è messa in vendita. C’è già qualcuno interessato all’acquisto, smantellamento e riedificazione del gigantesco edificio. La maggior parte degli impiegati però ha preferito la via del licenziamento concordato. Ne restano alcuni pochi che condividono la nostalgia del direttore, determinati a non perdere quanto hanno costruito con la loro professione. Vi è coinvolta anche Lilly (Lilly Lindner), la figlia di Lucius che vorrebbe invece cambiare professione e affrancarsi dalla assillante presenza paterna. La strategia possibile allora è conoscere e combattere il facoltoso acquirente anch’esso colpito dalla nostalgia dei vecchi tempi. 

La nostalgia è uno dei fili tematici che caratterizza il film. La si vede affiorare nelle immagini in bianco e nero che aprono il film e che lo accompagnano come una ripetuta antifona del ricordo. Vecchie immagini di cronaca documentano il valore del progetto al momento della posa della prima pietra; o l’affetto dei viennesi per la grande pista di ghiaccio adiacente all’edificio e contenuta in parte anche dall’edificio; o la fedeltà degli ospiti che in quella elegante struttura ritornavano perché conservavano ricordi di vacanze memorabili.

Tra questi c’è Facundo Ordoñez, il compratore argentino interpretato dallo stesso regista Gastón Solnicki. La scelta di ambientare la vicenda a Vienna non ha poca importanza. Innanzitutto perché il regista ha origini austriache da una famiglia di emigrati ebrei in Argentina, e poi perché Vienna ha rappresentato la capitale dell’ultimo grande impero d’Europa dissoltosi con la prima guerra mondiale (Solnicki aveva già affrontato il tema ambientando Ritorno all’oscuro nella capitale austriaca). Il carattere mitteleuropeo si evidenzia anche dalla varietà di provenienza del manipolo di personaggi che animano il film, tutti intenzionati a collaborare per mantenere in piedi un microcosmo ormai a rischio di estinzione. Inoltre la colonna sonora richiama la musica colta che in Vienna ebbe uno dei suoi centri più prolifici, e da cui prese avvio l’influenza delle melodie romantiche. Ma cristallizzare qualcosa che ha raggiunto il suo crepuscolo è una sfida improbabile e lascia, come la musica romantica, il sapore della malinconia. 

Lucius però è determinato, non è disposto a perdere né il luogo dove ha vissuto per trent’anni, né tantomeno l’autorità che gli conferiva l’incarico. È uno stratega che tenta inutilmente di manipolare il drappello di fedeli collaboratori, o di conquistare la compagna dell’argentino, o di motivare la figlia a stargli accanto in questa battaglia, o a convincere proprietari e amministratori locali a non dare via l’Intercontinental. In questo senso è un suggeritore, ma lo è anche il senso “teatrale”, cioè colui che suggerisce le battute agli attori durante una messa in scena. Il teatro è un altro motivo ricorrente in questo film, innanzitutto per la presenza di uno scenario vero inutilizzato da tempo nel gigantesco albergo; e poi per le “marionettate” del protagonista a rammentare lo stato delle cose; e infine, per la performance a quattro mani al pianoforte che con il suo tono melanconico suscita il pianto del protagonista e la sua risata isterica.

Souffler è anche indicativo di colui che vuole soffiare, eliminare una pedina nel gioco degli scacchi più volte rappresentato dalla minuscola scacchiera che dà il senso della penuria delle possibilità di successo e allo stesso tempo di una partita lenta che non vuole arrivare alla fine.

E infine souffleur richiama il soffio vitale, il respirare, che è segno di continuare a vivere, di non lasciar affondare la nave a cui Lucius paragona il grande albergo e di cui lui si sente il comandante investito nella missione di salvataggio. A tale proposito, intense ed efficaci le due immagini del protagonista ritratto in atteggiamento di respiro e contemplazione dall’alto del tetto dell’Hotel in una vista da cartolina di una città colorata dall’oro del sole pomeridiano; e quella delle sue mani che come in una tastiera “esegue” un concerto di luci accese e spente delle camere per dare segni di vita e di vivacità.

Ma l’impegno di Lucius è solo il paranoico desiderio di non perdere la propria identità di direttore che un tempo dirigeva un’orchestra di professioni differenti votate all’ospitalità, e oggi ridotte a una “orchestrina” che come sul famoso transatlantico sta accompagnando l’affondamento del titanico albergo. Il film appare così come metafora dell’identità di un continente la cui ricchezza storica e culturale si sta dissolvendo tra le dense nebbie che rendono tutto uguale, sospeso, indistinguibile. 

Film difficile, alleggerito da una performance ispirata di Dafoe il quale ha collaborato al progetto in cui la narrazione lotta con l’indole sperimentale del regista. Interessanti, e ancora al confine con lo sperimentale, sono le interpretazioni degli interpreti la cui maggior parte non ha esperienze attoriali precedenti. Il regista restituisce un mondo che mostra la sua parte più vivace, e cioè i corridoi e i claustrofobici ambienti di servizio, lasciando le zone nobili a pochi ma intensi momenti, uno di questi è il concerto nell’elegante teatro con l’inquadratura in primo piano del pianto del protagonista, espressione di una consapevole disperazione. 

Apprezzabile, ma ancora insicuro (e furbo), l’impegno registico di Solnicki che tenta di restituire con questa storia l’immagine di un'Europa in decadenza, vista con gli occhi di un figlio di emigranti che ricorda il fasto e la bellezza sempre a rischio per le soggettività di un insieme di paesi ancora incapaci di eliminare prevaricazioni e condividere la ricchezza della loro differenza senza il bisogno di un “imperatore”.