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The Mastermind di Kelly Reichardt
Nel cinema di Kelly Reichardt il gesto minimo ha sempre avuto un peso specifico enorme. Una carezza non data, una passeggiata fuori campo, un cane che attende: ogni elemento racconta un mondo. The Mastermind, in concorso a Cannes, conferma questa poetica della sottrazione con esiti insieme affascinanti e parzialmente irrisolti.
Ambientato negli Stati Uniti degli anni Settanta, sullo sfondo della guerra del Vietnam e delle prime crepe del sogno americano, il film segue un ladro d’arte sgangherato e malinconico (Josh O’Connor) alle prese con piccoli furti, legami familiari sfuggenti e una realtà che sfuma continuamente tra il grottesco e il tenero.
La prima metà, costruita con estrema precisione e volontaria opacità, fatica però a coinvolgere: la Reichardt spinge fino al limite il suo rifiuto della narrazione convenzionale, smorzando l’ironia che in film come Certain Women bilanciava il rigore. Il risultato è una rarefazione che rischia di diventare manierismo, almeno per uno spettatore che non si accontenta della perfezione formale.


The Mastermind di Kelly Reichardt
Quando però il protagonista si mette in fuga, la materia filmica si accende. Cambia il ritmo, si intensifica lo sguardo. La regista ritrova allora quella forza emotiva ed esistenziale che l’ha resa uno dei nomi imprescindibili del cinema indipendente americano. Un esempio su tutti: la “deposizione” dei quadri in un vecchio fienile, dove l’arte torna polvere e silenzio. Una scena apparentemente semplice, ma che racconta tutto – la disfatta di un progetto, la resa all’impossibile, l’amore di un padre per il figlio.
Proprio il rapporto padre-figlio introduce una delle intuizioni più delicate del film: quel bambino logorroico, innamorato delle parole e dei giochi mentali, lasciato solo a parlare nel vuoto di una cornetta telefonica. Due mondi che si sfiorano senza incontrarsi davvero, due solitudini che si amano ma non si comprendono. In un’epoca di comunicazione ossessiva, la Reichardt mette in scena il valore struggente del non detto.
Josh O’Connor, qui in una prova più contenuta e poetica rispetto ad altri ruoli recenti, incarna perfettamente questo protagonista à la Melville: un uomo in fuga da sé stesso, goffo come Tati, disilluso come i personaggi di Carver, attraversato da un’urgenza senza nome. Il jazz scomposto di Rob Muzarek accompagna il racconto con misura e libertà, rompendo il silenzio con discrezione, come se commentasse i vuoti più che le azioni.


The Mastermind di Kelly Reichardt
The Mastermind è anche un film sulla disillusione americana, come del resto tutto il cinema di Reichardt. Ma stavolta la disillusione si duplica: da un lato il fallimento di un'ideale (familiare, artistico, politico), dall’altro un cinema che, pur nella sua impeccabile fattura, lascia spazio a una forma di disincanto estetico. Non si tratta di un tradimento, ma di un rischio: la freddezza.
La fotografia – incantevole – e la regia (sempre misurata, mai ridondante) costruiscono immagini che riallineano lo sguardo, come si è detto. Ma resta il dubbio: non sarà, questo cinema, più interessante che realmente coinvolgente?
Certo, per chi ama Kelly Reichardt, The Mastermind offre molte conferme. E un tocco di genio, qua e là, come sempre. Ma si esce dalla sala più con un pensiero che con un’emozione. Più con l’idea di aver visto un film intelligente, che con la voglia di rivederlo.