Mentre la USCSS Nostromo con a bordo Ellen Ripley è ancora in viaggio, un'altra nave della compagnia Weyland-Yutani, la Maginot, punta verso la Terra senza controllo.

Un gruppo di giovanissimi soldati dalle incredibili capacità, esplicitamente ispirato ai ragazzi perduti di J.M. Barrie e al film di animazione Disney Le avventure di Peter Pan, è chiamato a una missione di salvataggio dopo che la Maginot è precipitata nel bel mezzo di Prodigy City. A guidarli nell'insidioso compito Boy Kavalier, enfant prodige e fondatore della Prodigy Corporation, un Peter Pan costantemente a piedi scalzi che vanta un legame speciale con i suoi ragazzini perduti, in particolare con Wendy, la prima di tutti.

C'è poi la guerra commerciale tra le corporation che si spartiscono il potere, in particolare la Weyland-Yutani, al cui servizio si muove il cyborg Morrow. Siamo nel 2120, due anni prima del futuro immaginato da Alien, il film capostipite della saga di cui fa parte Alien: Pianeta Terra. Che quindi ne è una sorta di spin off televisivo in otto episodi creato da Noah Hawley e prodotto esecutivamente insieme a Ridley Scott, regista del primo Alien e di due prequel.

Alien: Pianeta Terra, già dal titolo, infrange un tabù. Mai prima d'ora l'incontro umano con i terribili xenomorfi era avvenuto nella casa dell'umanità – se si escludono i film della serie Alien vs Predator, che però il deus ex machina Ridley Scott non considera canonici. Narrativamente, la serie è un po' sfilacciata, ma questo non sorprende.

Nel ruolo di creatore troviamo quel Noah Hawley che ha costruito cinque stagioni della serie Fargo, ispirata all'omonimo film dei fratelli Coen. Lì lo spunto iniziale si trasformava quasi in un pretesto e l'unico elemento immutabile era l'organicità col mondo creato dal lungometraggio, rendendo la serie, di fatto, antologica. La coerenza di Alien: Pianeta Terra è proprio lì, nella continuità col film capostipite ma anche con la saga stessa, a cui si intrecciano echi di questioni filosofiche sull'umanità alla Blade Runner.

Una parte consistente della serie è un inevitabile fanservice pieno di citazioni e riferimenti appaganti: nella Maginot, il cui décor degli interni è minuziosamente conforme a quello di Alien (c'è persino la stessa stanza di ipersonno), i personaggi fumano e l'atmosfera working class sembra più uscita da un film di Paul Schrader che da uno di Fede Álvarez, riprendendo in parte la quella visione del futuro post Star Wars che allo spettatore di fine anni Settanta appariva fresca e originale. Anche il casting dell'equipaggio sembra attentamente calibrato per ricordare quello della Nostromo.

Tuttavia questo è anche il limite della serie, che finisce per mettere in secondo piano le star primarie della saga, ovvero gli xenomorfi, gli alieni del titolo. Fin dalla prima apparizione nel 1979, i mostri disegnati da H.R. Giger erano velocissimi, imprevedibili, calati in un mondo d'ombre che ne celava la visione d'insieme. Qui, invece, li vediamo nel dettaglio, analizzati e studiati: una scelta che ne mutila inevitabilmente il fascino e riduce la tensione.