PHOTO
Songs of Forgotten Trees
Nel giro del mondo che è sempre un festival, dall’India arriva a Venezia Songs of Forgotten Trees, nella sezione Orizzonti. La regista Anuparna Roy gira un film piccolo di 77 minuti, ma non un piccolo film, anzi un oggetto preciso ed esatto che va esattamente a meta con la sua storia minima e raggiunge ciò che vuole ottenere: l’affresco di due donne invisibili che resistono, due migranti nella Mumbai di oggi, spietata e tentacolare. L’una, Thooya, ha il sogno di fare l’attrice ma intanto esercita segretamente la prostituzione per portare a casa la giornata, in particolare al servizio di un viscido e untuoso “sugar daddy” che le concede un appartamento.
La “rivolta” della ragazza si innesca quando decide di subaffittare proprio quella casa, all’insaputa del “daddy”; la scelta ricade su Swetha, lavoratrice di un call center in difficoltà. L’atto non si presenta inizialmente come gesto di solidarietà, ma solo gradualmente costruisce un’ipotesi di vicinanza. Le due donne, sconosciute e diverse, si riscoprono affini: non attraversi scene madri o passaggi espliciti di dialogo, non è un film parlato, ma avanzando per minuzie quotidiane, accortezze reciproche, perfino la condivisione di momenti di silenzio.
Naturalmente, come sempre quando germoglia un legame c’è un’evoluzione che esplicita il sentire interiore: apprendiamo che Thooya e Swetha ripongono segrete ambizioni, a cui hanno rinunciato nel grigio presente, e celano cicatrici per i loro trascorsi. La condivisione dello spazio domestico resta sempre in bilico, messa a rischio dal “padrone”, che presa coscienza della situazione non mancherà di ricordare duramente a Thooya: “Tu sei mia e di nessun altro”. Lo sfruttamento dell’uomo sulla donna, come sempre e da sempre, è una questione economica e si concretizza nel dominio del corpo, ma qui c’è anche una prigione mentale che impedisce di essere se stessa.
Film girato prevalentemente tra quattro mura, con poche puntate esterne (l’abitacolo di un’auto), è la storia di un’alleanza silente che culmina nella sequenza del bagno: mentre eseguono le proprie abluzioni, col muro che divide in due l’inquadratura, le donne improvvisamente si uniscono in un abbraccio che prova a lenire le proprie disperazioni.
Peculiare la genesi del film: la regista ha raccontato la sua infanzia in un paesino indiano con la “scomparsa” della migliore amica, da un giorno all’altro, sposata a tredici anni con un programma statale e mai più ricomparsa. “Il suo silenzio non se n’è andato”, dice: quel vuoto lo riversa sullo schermo e forse un po’ lo riempie. Il film è un piccolo canto, non ha il respiro del grande cinema indiano coi suoi racconti femminili, in ultimo Amore a Mumbai, ma proprio la scelta minimalista diventa la forza del ritratto.