PHOTO
Six jours ce printemps-là (2025)
Ci sono film in cui non succede nulla, ma accadono tante cose. Six jours, ce printemps-là (Six Days in Spring), ultimo lavoro di Joachim Lafosse, appartiene a questa categoria di racconti sospesi, dove la vita scorre sotto la superficie come un’inquietudine sommessa, e ogni gesto, ogni attesa, ogni silenzio, diventa un fatto interiore. Dopo i divorzi e le disgregazioni di After Love, la malattia mentale de Les Intranquilles e la vergogna taciuta di Un silence, il regista belga firma un film che sorprende per la sua luce, per la leggerezza nuova che lo attraversa. Lafosse stesso parla di “un desiderio di calma e dolcezza”.
Sei giorni “rubati” che spostano, per micro-scarti, la geografia morale di una famiglia. Sana (Eye Haïdara), madre single e lavoratrice instancabile, vive una vita fatta di turni e attese, divisa tra schermo, bancone e cucina. Quando il nuovo compagno Jules (Jules Waringo) le propone una vacanza con i figli gemelli, lei accetta. Ma il piano salta all’ultimo momento. Per non deluderli, Sana cede al loro desiderio infantile: trascorrere una settimana nella villa dei nonni paterni, a Saint-Tropez, senza avvisare nessuno. Entrano di nascosto, scatta l’allarme, si impongono regole minuziose - niente acqua, niente luce, niente terrazza vista mare. È l’inizio di un piccolo esilio volontario, di un’occupazione dolce e colpevole, dove la libertà si misura in respiri trattenuti.


In questo spazio rubato, Lafosse costruisce un racconto che scivola dal succedere all’accadere: pochi fatti visibili, ma molteplici spostamenti interiori. Succede poco: i vicini, la paura, la minaccia del ritorno dell’ordine. Ma accade tutto: Sana attraversa la propria illegittimità, la trasforma in diritto, si riappropria di un orizzonte negato.
La casa, con i suoi corridoi, terrazze e persiane, si fa corpo simbolico: chiusura e apertura, prigione e libertà. L’acqua - piscina, docce, mare - diventa simbolo di rinascita e metro della legittimità sociale, mentre la luce impressionista di Jean-François Hensgens trasforma ogni stanza in una trappola luminosa. Il film si muove su una sospensione costante, fatta di ellissi e sguardi, di camera fissa e improvvisi movimenti a mano: calma e rischio, tenerezza e colpa, respirano nello stesso quadro.
Ma in questa storia privata si avverte anche l’eco più vasta del fantasma coloniale. Sana, donna nera in una Riviera borghese, abita lo spazio di un privilegio che non le appartiene più, e che forse non le è mai appartenuto davvero. Il suo gesto - “invadere” la casa dell’ex famiglia bianca - assume il valore di una riappropriazione simbolica, un ritorno silenzioso sul luogo dell’esclusione. Lafosse non sottolinea mai, ma lascia che lo spettatore senta la vibrazione di quel rimosso storico: l’invisibile che ancora organizza le distanze, la servitù e la colpa come eredità non chiusa dell’Occidente. È il suo modo, sottile e politico, di suggerire che ogni famiglia è anche una colonia, ogni casa un territorio di rapporti di forza.
La tensione è reale ma sempre sospesa, rimandata, trattenuta. Il film gioca con le aspettative dello spettatore: tutto sembra sul punto di esplodere - lo sguardo di un conoscente, la scoperta dei vicini, l’arrivo della polizia - eppure nulla davvero deflagra. Lafosse si ferma prima del dramma, come se volesse dimostrare che la vera violenza non è nell’atto, ma nella possibilità negata di essere se stessi. Gli “infiltrati” del mondo esterno - Emmanuelle Devos e Damien Bonnard - irrompono come emissari di un ordine sociale che pretende di rimettere tutto al suo posto.
Eye Haïdara regala una prova di straordinaria misura. Accanto a lei Jules Waringo incarna una maschilità gentile ma non fragile, complice e mai prevaricatrice. I gemelli Léonis e Teodor Piñero Müller, al debutto, restituiscono un’infanzia vera, non addomesticata.
Il montaggio di Marie-Hélène Dozo privilegia il ritmo interno, i vuoti e i respiri; la musica di Reyn disegna emozioni con pochi accordi di piano. Tutto concorre a un equilibrio nuovo nella filmografia di Lafosse: un realismo tensivo che lascia filtrare la luce, un rigore morale che si fa carezza. Dopo anni di discesa negli abissi della colpa, Six Days in Spring è il suo film della riconciliazione - con la madre, con l’infanzia, con la vita stessa.