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Fabrizio Gifuni in Portobello
NB – La recensione affronta solo i primi due episodi di Portobello, la serie di Marco Bellocchio, presentati Fuori Concorso a Venezia 82. Si tratta, dunque, di una lettura parziale e incompleta.
I primi due episodi di Portobello, la serie che racconta la devastante odissea giudiziaria di Enzo Tortora, sono dedicati alla memoria di Francesca Benedetti, una delle più carismatiche attrici teatrali italiane, morta lo scorso 3 maggio. Atto dovuto, certo, e però c’è qualcosa in più, perché è nel suo breve ma incisivo intervento che brilla la luce nera di Marco Bellocchio, la seconda dopo la monumentale Esterno notte. Più che interpretare Paola Borboni, Benedetti sembra posseduta dallo spirito dell’istrionica capocomica, che nel 1982 divenne la prima persona a riuscire nell’impresa di far parlare il pappagallo mascotte del programma condotto da Tortora. Momento entrato nella mitologia della televisione italiana (in un’epoca in cui gli ascolti superavano i venti milioni di teste) e non si sa bene quanto effettivamente vero (ma che importa?), diventa per Bellocchio lo spazio ideale in cui trasfigurare il realismo e convocare l’onirico.
Attraverso il montaggio di Francesca Calvelli, Bellocchio ragiona sul campo dove si esalta la finzione (lo studio di registrazione, la messinscena della teatrante che si lascia mascherare da maga) e sul fuoricampo al di là dello schermo (tutta l’Italia riunita nelle case e nei circoli: ricchi e poveri, nord e sud, borghese e proletaria, suore e laici), gioca con i piani, alternandoli e incrociandoli, e coglie così il senso profondo di un fenomeno che ha a che fare con la suggestione di massa e l’arte della commedia, l’imbroglio e l’incanto (a interpretarlo c’è un Fabrizio Gifuni chirurgico).


Fabrizio Gifuni è Enzo Tortora in Portobello di Marco Bellocchio - Foto ANNA CAMERLINGO
Un rituale collettivo officiato da un presentatore completamente votato alla causa dell’intrattenimento, convincente battitore d’asta ed elegante imbonitore, pronto a mascherarsi da Pulcinella (un presagio vesuviano, con il simbolo di Napoli che riapparirà in sogno a “chiedere il conto”) o da Arlecchino da sartoria, capace di muoversi tra lo scetticismo e la fascinazione.
Lo si vede in altre sequenze che restituiscono appieno la cifra umana e poetica di Bellocchio. Non solo quella straniante con l’enigmatica ragazza che piange a comando e propostasi come attrazione (o freak) per il programma, con Tortora che si interroga sulla resa televisiva dell’evento mentre il suo assistente di studio ne resta talmente turbato da commuoversi. Ma soprattutto l’ipnosi per via catodica, apoteosi di quella suggestione di massa che, pur non rinunciando a un registro infine scherzoso, fa capire bene gli effetti della televisione sulla gente (e c’è sempre quell’assistente di studio che sviene per l’emozione).
È una sorta di responsabilità morale e politica che pare essere il vero interesse di Bellocchio, perlomeno nei primi due episodi della serie scritta con Stefano Bises, Giordana Mari e Peppe Fiore (nonché prima produzione italiana di HBO Max). Che, in qualche modo, viene recriminata allo stesso Tortora, ormai recluso a Regina Coeli dopo l’arresto perché accusato di affiliazione alla camorra e traffico di droga, dal compagno di cella, un detenuto politico che ha ucciso in nome di un’ideologia (Pier Giorgio Bellocchio: un caso?).


Pier Giorgio Bellocchio e Fabrizio Gifuni in Portobello
(Anna Camerlingo)È uno scontro feroce e implacabile, avvolto nell’oscurità della prigione (la fotografia fosca anche sotto i riflettori è di Francesco Di Giacomo) che è sì allegorica e sembra già una delle tante sedute spiritiche dell’opera del nostro autore più grande, in cui l’extraparlamentare sostiene che non può essere davvero innocente chi per anni ha imbrogliato il popolo e la star rivendica il fatto di non aver voluto fare la rivoluzione (a differenza sua, che ha fallito “per fortuna”: Tortora votava per i liberali) ma solo intrattenere il pubblico senza nulla a pretendere.
E in fondo per decrittare questo caso che ha segnato la storia d’Italia, la madre di tutte le vicende di malagiustizia, Bellocchio non può che ricorrere agli abissi della psiche frequentati in sessant’anni di cinema ribelle e mai riconciliato, interrogando la mitomania dei mediocri, il rancore dei servi, la superbia delle comparse convinte di avere diritto a un ruolo da protagonista. Perciò il primo episodio si concentra soprattutto sulla figura meschina di Giovanni Pandico detto ‘o Pazzo, un ragioniere omicida con ambizioni artistiche e disturbi psichiatrici, che in carcere si affilia alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo detto ‘o professore, diventandone lo scribacchino eppure convinto di essere uno dei fedelissimi del boss.


Lino Musella in Portobello
(Anna Camerlingo)È un personaggio incredibile che aspettava solo un Bellocchio in grado di capirne l’invidia e la miseria e un pazzesco Lino Musella a incarnarlo, un caso clinico che, deluso dall’indifferenza di Tortora a cui aveva inviato dei centrini da vendere al mercatino di Portobello, annuncia la vendetta approfittando di un caso di omonimia (c’era un Tortora nel clan di Cutolo) e, dichiaratosi non pentito ma “dissociato” (termine con una sua ambiguità, ovviamente), innesca l’indagine dei pubblici ministeri Lucio Di Pietro (quasi una cupa macchietta: non si toglie mai gli occhiali e dà le carte con goffo cinismo) e Felice Di Persia.
A Bellocchio interessa Tortora nella misura in cui ossessiona Pandico: la vittima diventa la pedina di una macchina teatrale – anzi televisiva, con mamma Rai diventata matrigna, che ammazza “il figlio” in nome dell’informazione voyeuristica – come dice l’avvocato di Tortora – “ciò che a noi sembra evidente non lo è a loro”. Quel che apparentemente può sembrare lontano dalle pratiche bellocchiane si rivela via via una variazione dei temi cari e delle angosce ricorrenti: più della cronaca nera conta l’assurdità pirandelliana; più del true crime, l’incubo kafkiano; più dell’equazione dei fatti allineati, la consistenza delle contraddizioni.
E sembra dirci che una vicenda del genere non poteva che esplodere in un Paese ipocrita e moralista, disponibile a credere alle illusioni e pronto a scagliare la prima pietra. Lo stesso Paese in cui un presentatore amatissimo e stimatissimo sniffa coca prima di entrare in scena e finisce in carcere con la falsa accusa di traffico di stupefacenti.