“Ho scoperto un altro modo per arrivarci”, dice Magellano ad un certo punto, mostrando con mappe e compassi come avesse intenzione di dimostrare l’esistenza di un passaggio alternativo via mare che sfociasse poi nell’ovest dell’America, verso il Pacifico, partendo dalla Spagna.

Guardando il nuovo, monumentale film di Lav Diaz dedicato all’esploratore, l’affermazione sembra anche una dichiarazione d’intenti – l’altra maniera per arrivarci, infatti, potrebbe essere anche quella con cui Diaz affronta un progetto che sembra negare alcuni dei diktat con cui nei decenni il cineasta filippino aveva costruito il culto della propria poetica e della propria riconoscibilità stilistica: non tanto per l’uso “pittorico” del colore (come nel meraviglioso Norte – The End of History, visto sempre a Cannes), scelta già ricorsa più di una volta all’interno di una produzione filmica a prevalenza di bianco e nero, quanto per l’apertura ad una struttura che inaspettatamente decide di alternare le proverbiali vedute “paesaggiste” in campo lungo e camera fissa con inquadrature meno frontali, l’utilizzo di set e parco luci, addirittura un movimento di macchina anche se solo “apparente” (un bellissimo attraversamento di un corso d’acqua mentre comincia a piovere in maniera sempre più scrosciante…).

Soprattutto una durata oramai “canonica” (2 ore e 45 minuti, nella media delle visioni del festival) a fronte dei leggendari esperimenti dal minutaggio sterminato come Death in the Land of Encantos o quel The Woman Who Left con cui portò a casa un chiacchieratissimo Leone d’Oro a Venezia ormai nove anni fa.

A traghettare la rockstar del cinema filippino verso questo nuovo passaggio potrebbe aver senza dubbio contribuito la produzione con fondi portoghesi (e infatti i quadri del film assumono spesso una texture vicina a un certo João Botelho e alla peregrinação del suo cinema attraverso i fondali di posa) e l’apporto di un’altra rockstar arthouse in ascesa come Albert Serra.

Magellan
Magellan

Magellan

Però forse, invece, la natura – rossellinianamente, da Rossellini televisivo – didattica di Magalhães è necessaria innanzitutto ad un’opera che, una volta per tutte, giunge alle radici delle storie di Lav Diaz, che sin dai titoli giovanili ha raccontato il sostrato coloniale della Storia della sua terra, le ere geologiche del potere che innervano la dittatura come struttura sociale diffusa tra gli esseri umani, ben al di là della sua incarnazione “istituzionale”.
E così l’avventura di Magellano (e soprattutto della spedizione di Siviglia del 1519) diventa una storia di violenza, di ammutinamenti sedati nel sangue, dello scontro dissonante tra le icone della fortissima fede cattolica del navigatore, e il panteismo dei nativi filippini da indottrinare – mentre le tensioni sembrano non avere altra possibilità di catarsi che non sia sfociare nella repressione armata (con una sequenza finale sulla riva del mare tra la risacca di cadaveri che sembra quasi riecheggiare Cobra Verde di Herzog), la vicenda assume quei contorni magici che ammantano puntualmente i racconti di Lav Diaz di una sorta di stato allucinatorio ancestrale, primordiale, antichissimo.

Si tratta di un altro film di vaneggiamenti, certo, quelli del protagonista interpretato da un Gael García Bernal di cui il regista “frustra” il divismo non regalandogli mai un assolo in primo piano né un trattamento epico (a questo Magellano manca – programmaticamente – qualsiasi tocco di eroismo), ma anche quelli degli schiavi che gli parlano dell’esistenza di questa creatura mitologica e vampiresca, Lapu-Lapu, per convincerlo a desistere dall’opera di evangelizzazione delle isole.

Magellan
Magellan

Magellan

Come spesso accade nelle sue opere, lo sguardo più dolce Diaz lo riserva per i personaggi femminili, che sono sempre anche quelli che ci restano più impressi: i frammenti dedicati alla moglie di Magellano, María Caldera Beatriz Barbosa, sciolgono nel calore delle inquadrature più amorevoli che il regista abbia verosimilmente mai girato, la spigolosità selvaggia del racconto di un’impresa che Diaz dipinge come maledetta già dai tentativi falliti che l’hanno preceduta, su cui il film si apre.