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Viggo Ferreira-Redier e Vicky Krieps in Love Me Tender
Se esistesse un genere cinematografico riservato ai film inautentici, Love Me Tender vi figurerebbe come una delle pietre miliari.
Il film di Anna Cazenave Cambet - tratto dal romanzo omonimo di Constance Debré - vorrebbe essere un Kramer contro Kramer aggiornato ai nostri tempi, dove la battaglia per la custodia del figlio non nasce da incomprensioni affettive o dinamiche relazionali, ma dalla necessità di trasformarla in un processo esistenziale attorno all’identità sessuale e alla libertà femminile.
Il risultato è un’opera irrigidita su una tesi, ideologica nel midollo e drammaturgicamente implausibile.
Il cuore del racconto — una madre che perde la custodia del figlio dopo aver confessato al suo ex marito di avere una relazione con un’altra donna — è posto come detonatore di un conflitto legale che dovrebbe apparire atroce e simbolico. E tuttavia non lo è, né sul piano psicologico né su quello narrativo.
Che il padre, da separato apparentemente equilibrato, si trasformi di colpo in un persecutore dei diritti della protagonista non trova mai spiegazioni credibili. Che lo faccia subito dopo quella rivelazione suggerisce che la regista intenda attribuirlo a un patriarcato latente, che non tollera l’autonomia femminile.
Ma ciò che Love Me Tender pretende di denunciare con forza, lo costruisce senza profondità. Il movente è ideologico, il percorso narrativo arbitrario. La complessità delle relazioni umane — che film come Kramer vs. Kramer, appunto, trattavano con delicatezza e ambiguità — qui si riduce a didascalia.
E non c’è nemmeno un tentativo di sfumatura nei personaggi: Clémence (interpretata da Vicky Krieps, attrice ormai onnipresente, capace ma stanca di incarnare sempre lo stesso modello di femminilità tormentata e silenziosa) è irreprensibile, persino troppo algida per essere coinvolgente; Laurent (Antoine Reinartz) è una figura negativa priva di contraddizioni. Le figure secondarie fluttuano come comparse al servizio della tesi. Il mondo interiore della protagonista, affidato alle pagine di un diario lette in voice-over, non aggiunge nulla all’immagine, ma ne certifica la vacuità. È un espediente abusato che qui diventa sintomo: quello di una povertà visiva camuffata da eleganza.
Anche la confezione non inganna chi sa vedere: fotografia calda ma manierata, musica complice fino alla piaggeria, scene di sesso esplicito per fingere intensità, arredamenti da rivista per illudere di profondità.
Ma il cinema non è superficie decorativa né schieramento ideologico. È tensione tra forma e verità, tra carne e visione. Qui resta solo il contenitore: un cinema che vuole educare ma dimentica di coinvolgere, che pretende di scuotere ma resta fermo, che rivendica la complessità e si rifugia invece nel manicheismo.
Il finale — che vorrebbe essere risolutivo e invece è semplicemente incongruo — arriva troppo tardi e suona falso. Falso per chiunque abbia vissuto l’esperienza reale e straziante della genitorialità e della separazione.
La maternità come campo di battaglia, il cavillo legale come allegoria di una società sessuofobica, l’amore saffico come ultimo atto di liberazione: nulla di tutto ciò è in sé sbagliato, se non fosse raccontato così, a colpi di martelletto ideologico, senza contrappunto, senza dubbio, senza grazia.
Love Me Tender è un film che non ama davvero i suoi personaggi, né lo spettatore. È convinto di avere ragione, e di dovercelo spiegare. Ma il cinema non è un’aula di tribunale, e chi pretende di trasformarlo in una requisitoria finisce per perdere il processo della settima arte.