Si è detto presentandolo e non rendendogli forse un gran servizio che Leila, ultima fatica di Alessandro Abba Legnazzi – regista e illustratore dalla vocazione intermediale, la cui carriera meriterebbe sicuramente più considerazione – ricordi alla lontana La vita è bella

In realtà il cineasta rassetta, ribalta e risemantizza l’opera di Benigni: vi innesta la traccia autobiografica a partire dal rapporto rivitalizzante tra padre e figlia (“Davanti agli occhi pieni di lacrime di mia figlia Clementina, non sapevo come rispondere alla sua domanda più grande: dov’è la mamma?") , celebra la fantasia come unico vaccino alla scomposizione familiare, ma ne asporta completamente il tremendo contesto socio-politico per votarsi alla fiaba.

Il risultato è una lucida e intenerita cognizione del dolore, un breviario intimo, sofferto, sussurrato ma catartico sul rapporto genitoriale in spazio-tempo decontestualizzato e mitopoietico per eccellenza: un villino a piedi del bosco.

Qui, d’estate, vivono Clementina e il papà. Ma la bambina lamenta l’assenza della mamma, d’improvviso andata via. Così il genitore organizza con la figlia una spedizione tra il bosco, le montagne e il lago per strapparla alla Regina delle Acque che l’ha imprigionata per trasformarla in un essere marino.

Alternando realismo intimista, doc paesaggista e cartoon animato, Abba Legnazzi, che scrive e dirige con la figlia Clementina e l’ex moglie Giada Vincenti, compone un piccolo gioiellino low budget (producono, con merito, Start e Little Bear) sull’elaborazione di una separazione in cui tutti “perdono razionalità e credono di avere ragione”.

La camera - quasi sempre fissa e distanziata, non importa se sono primi piani o campi lunghi –  restituisce, in economia di mezzi e appannamento emotivo, tutto lo spaesamento davanti alla fine improvvisa d’un amore, all’incapacità di razionalizzarlo ed elaborarlo, alla necessità di riplasmare il reale per poterlo sopportare, all’impellenza di suturare la ferita di una bambina che improvvisamente perde il riferimento femminile, sfogando una fantasia reinventiva e alleggiante.

Ci si potrebbe dilungare sui significati intrapsichici delle figure immaginate e disegnate dal regista, ma non è questa la sede per spericolatezze interpretative.

Basti annotare che carica fiabesca e paesaggismo, creatività bozzettistica e lessico famigliare, meditazione intertestuale, acquerelli e home movies si fondono senza sovraccarichi in un passo a due intenerito sviluppato in uno spazio che è dislocamento del desiderio, aggiramento del trauma, ristrutturazione onirica del visibile.

Ne esce fuori un piccolo, composito gioiellino dal passo breve (64 minuti di durata), meditato e minimale, che potrebbe ma non cede mai al dolorismo gratuito né tantomeno al moralismo, reagendo anzi alla gravitas del presente con la leggerezza della fantasia.